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Musica e Parole

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La concezione della Musica e del Canto nel mondo greco e romano

2021-02-02 01:06

Admin

Musicologia generale, Curiosità, musica, strumenti musicali, grecia, roma,

La concezione della Musica e del Canto nel mondo greco e romano

Carissimi quest'oggi vi propongo un insieme di testi e di miei studi sulla musica e il canto al tempo dei greci e dei romani. Buona lettura!

 

 

 

 

 

 

 

Carissimi quest'oggi vi propongo un insieme di testi e di miei studi sulla musica e il canto al tempo dei greci e dei romani, un interessante approfondimento che va a trattare i diversi aspetti legati alle discipline artistiche musicali.

Da sempre appassionato a questo periodo storico, ho raccolto l'invito di quanti sul gruppo desideravano approfondire la materia.

L'articolo inizia con la descrizione della Musica nel mondo greco antico, per poi proseguire con l'interessante articolo di Massimo Raffa pubblicato sulla Rassegna Musicale Curci nel settembre 2020. 

In fondo troverete materiale audiovisivo interessante.

Buona lettura,

Alessandro Ceccarini, adm

 

La Musica nel mondo greco antico

Delle civiltà antiche quella greca è l'unica di cui si possiede un repertorio musicale e musicologico di una certa entità. Il pensiero sulla musica e documentabile in Grecia sino dalle più antiche concezioni mitiche (Orfeo, Marzia, Apollo) e dei poemi omerici che vedono nella musica fonte di piacevole intrattenimento. Si deve (secondo la leggenda) a Terpandro l'invenzione dei "nomoi" che costituivano melodie prestabilite per determinate occasioni e furono probabilmente il punto di partenza per l'elaborazione di leggi immutabili che governavano l'estrinsecazione del fenomeno compositivo in corrispondenza a diversificate situazioni.
Nei dialoghi di Platone torna spesso la riflessione sulla musica. In alcuni (La Repubblica, Simposio) è sostenuto suo valore educativo e il pericolo congenito nella sfiorare di forze irrazionali suscitate dalla musica stessa; Aristotele tende invece ad accettare qualsiasi emozione suscitata dai suoni nella consapevolezza che essi possono avere un positivo effetto catartico. Se per i pitagorici il concetto di armonia è spiegabile come unificazione dei contrari possibile attraverso una relazione tra numeri i cui riflessi sono reperibili nell'armonia universale delle sfere, Damone esalta soprattutto il significato della musica che contribuisce a una "vita ordinata e felice", che Aristosseno elabora (Elementi di armonia e Elementi di ritmica) contemporaneamente in un riassunto della teoria greca e pone le basi per un approccio empirico sensibile al fenomeno musicale, che avrà notevole importanza nella teoria musicale a partire in particolare dal Rinascimento. 


Qui di seguito in breve l'elenco dei documenti musicali greci di cui attualmente disponiamo:
a) la melodia dei versi 338-343 dell' Oreste euripideo con relativo accompagnamento strumentale annotato;
b) frammento del papiro cairense 59.533 risalente alla fine del III° secolo a.C.;
c) frammenti del papiro G 29.825 conservato alla biblioteca nazionale austriaca di Vienna il cui testo è attribuito da alcuni a Euripide, da altri ad Aristofane, ed altri ancora a scrittori minori del periodo ellenistico;
d) frammenti del papiro berlinese 6870 contenente brani vocali e strumentali per cui un peana di 11 versi;
e) frammenti del papiro osloense 1413 risalente al II° e al I° secolo a.C.e contenente probabilmente il testo di una tragedia ellenistica;
f) gli inni Delfici. si tratta del testo poetico e musicale di due peana situati su lastre marmoree di rivestimento Tesoro degli ateniesi a Delfi;
g) papiro ossirinchita 2436 contenente il testo di un ditirambografo attico;
h) due preludi citaredici;
i) epitaffio di Sicilo databile fra il I° sec. a.C. e il I° sec. d.C.;
l) due inni dedicati a Elios e a Nemesi;
m) papiro ossirinchita 1786 contenente una lode della natura al signore e la cui origine è riconoscibile in quel sincretismo neopitagorico cristiano diffuso in Egitto fra il III e IV secolo;
n) frammento di melodia inerente all'inizio della prima pitica di Pindaro la cui autenticità è tuttavia discussa.


La base ritmica musicale greca fu praticamente solo verbale; il tempo primo era la breve la cui duplicazione determinava la lunga: la combinazione di tali misure in schemi metricamente ben determinati costituiva i piedi (pirrichio, giambo, trocheo, tribraco, spondeo anapesto, e altri). Una successione di suoni costituenti il modo era definita armonia; ve ne erano​ di tre tipi: diatonica, cromatica, enarmonica a seconda che i suoni si succedevano per intervallo di tono, di semitono o di quarto di tono. Fondamento della musica greca era il tetracordo (successione di quattro suoni discendenti, la cui distanza intervallare determinava i tre generi via tonico, cromatico, e l'armonico che che solitamente si trovava unità in coppia determinando un'armonia).
Per indicare i suoni i greci si avvalevano delle lettere dell'alfabeto fenicio o attico a seconda che si volesse indicare la parte strumentale o quella vocale. Il canto della Grecia antica era monodico o corodico (si ricordi che il coro in un primo tempo cantava in stretta omofonia e soltanto in un periodo successivo vennero introdotti le consonanze per quarta e quinta). Si faceva uso frequente di strumenti a fiato, a corde e a percussione. Fra essi cito: la cetra, il forminx, la lira, le arpe di varie dimensioni, l'aulos, la siringa, i timpani, i Cimbali, i sistri, i crotali. 
Componente fondamentale dell'estetica musicale greca è la caratterizzazione etica delle armonie, come informano dettagliatamente Platone e Aristotele. In particolare l'armonia Frigia era adatta a suscitare entusiasmo, quella Dorica a muovere a nobili imprese, quella Mesolidia esprimeva mollezza e sensualità; la più perfetta ed equilibrata era quella Lidia che univa insieme tendenze estetiche diversificate.

"Cantanti e maestri di canto nel mondo greco-romano" di Massimo Raffa

 

Canto e parola: separati alla nascita?
Il primo verbo della letteratura occidentale è la seconda parola dell'Iliade: aeide, <canta>.  Alle origini della cultura greca, in un mondo che non conosce più la scrittura micenea e non ancora l'alfabeto di derivazione Fenicia, il canto del poeta ricrea continuamente il passato, tiene vive le radici identitarie  del presente, veicola tutto il sapere della comunità; non solo il patrimonio  mitico,  ma le usanze,  i valori e  persino gli  atti della vita pratica: come fasciare una ferita,  armare un carro, costruire una zattera, prepararsi per andare a lavare i panni al fiume. La parola poetica non può essere immagazzinata in una memoria esterna, come un rotolo di papiro o un codice di pergamena, ma esiste soltanto nel momento in cui raggiunge l'orecchio dell'ascoltatore, per morire subito dopo; più che una presenza, la sua è una epifania, circondata dal silenzio e minacciata dall'oblio. 
L'aedo  (
aoidόs,  dalla radice del verbo aeido, <cantare>), custode di questo tesoro, gode di uno status quasi divino: egli solo può rivolgersi alla Musa (theá, <dea>: la terza parola della letteratura occidentale), che non a caso, insieme alle sue otto sorelle, è figlia di Mnemosyne, la <memoria>.
La parola dell'aedo (épos)  è canto. Essa non esiste senza il suo 'corpo sonoro';  in virtù delle caratteristiche specifiche della lingua greca antica, questo corpo è fatto di suoni la cui altezza è più significativa dell'intensità, sì che la successione delle sillabe forma melodie prima ancora che sequenze ritmiche. Quando pensiamo ai primordi del canto nella nostra civiltà, dovremmo tenere a mente che esso non nasce come elemento aggiunto alla parola del poeta per potenziarla od abbellirla;  piuttosto, esso è la stessa condizione di esistenza di quella parola, il modo in cui essa si dà alla percezione della comunità. Il divorzio tra canto e parola parlata verrà dopo, e sarà un processo lento, che durerà circa dall'ottavo secolo a.C. all'età ellenistica terzo-secondo secolo a.C.
La diffusione della scrittura e della capacità di leggere comporteranno, da un lato, il vantaggio di poter immagazzinare la memoria su supporti esterni; d'altra parte, però, la parola inesorabilmente perderà gran parte del proprio suono che finirà per avere ridottissima escursione melodica, come nella prosa, oppure per non averne affatto, come nella lettura muta, in cui il passaggio dal suono al segno grafico è ormai del tutto consumato. 
Spezzata quell'unità originaria, l'uomo greco, se vorrà cantare, dovrà reimparare a farlo; e noi con lui.


La Grecia arcaica e classica
Nel mondo greco arcaico (VIII-VI sec. a.C.) cantare era forse la attività più comune di uomini e donne fin da bambini. In ogni polis vi erano moltissime occasioni pubbliche e private per le quali era necessario allestire cori, come i sacrifici agli dei, i matrimoni, i funerali e tante altre, inoltre il cuore della vita politica e culturale della città stato, ossia il simposio aristocratico, era animato dai canti degli stessi commensali. Tutta la cosiddetta poesia lirica, monodica e corale, che ci è giunta in modo per lo più frammentario è priva di indicazioni musicali, non si comprende se non si fa riferimento a questo contesto. Le varie componenti sociali della polis - uomini adulti e ragazzi, donne adulte, fanciulle da marito e ragazze - avevano spazi corali a loro riservati, che si rispecchiano nella classificazione degli strumenti musicali, specialmente aerofoni, deputati ad accompagnare i diversi tipi di cori: esistevano infatti auloi andreioi ("maschili"), gynaikeioi ("femminili") e paidikoi ("da ragazzi"). I cori venivano istruiti dallo stesso poeta compositore oppure da un choragos, un "direttore", ciò poteva avvenire se una polis commissionava un canto corale a un poeta compositore celebre e lontano: il grande e strapagato Pindaro, ad esempio, mentre si trovava ad Atene o a Tebe poteva vedersi richiedere un epinicio da far eseguire a Siracusa. In ogni caso, il choragos sì serviva presumibilmente di una lira o di una cetra per dirigere il coro: in un epinicio, la terza Pitica, Pindaro allude ai "segni" (samata) della phorminx ( una specie di cetra ).
Ogni città aveva le proprie usanze e i propri stili musicali, come è ovvio;  ma l'educazione alla musike era universalmente considerata indispensabile al cittadino. nelle poleis aristocratiche dell'età arcaica, il cui esempio più illustre è Sparta, il canto veicolava i valori del coraggio e della virtù militare, così come ad Atene, Solone ne aveva fatto strumento di propaganda politica. In un modo o nell'altro, che i cittadini sapessero cantare, e quindi giudicare il campo altrui, era letteralmente un affare di stato; non stupisce quindi che i
n molti casi fosse proprio lo stato a farsi carico dell'istruzione musicale degli uomini liberi. Per quanto riguarda la cosiddetta età classica (V-VI sec. a.C.), il modello educativo che conosciamo meglio è quello ateniese, grazie soprattutto alle testimonianze di Platone e Aristotele. Nelle leggi Platone mette in chiaro che ogni cittadino che si rispetti deve avere studiato dall'ira ed essere capace di cantare in un coro. I giovani ateniesi si recavano dunque alla scuola del kitharstes,  che letteralmente significa " maestro di cetra", ma in realtà era più simile a un "maestro unico": oltre ad insegnare a suonare lo strumento e a dare i rudimenti del canto, infatti, egli va sulle buone maniere dei ragazzi e prevenire l'insorgere di cattivi comportamenti. le nostre fonti sono estremamente avare di informazioni sui programmi di insegnamento; se dobbiamo prestar fede a Platone, ci si aspettava che nel giro di tre anni i ragazzi fossero in grado di cantare accompagnandosi con la cetra in modo semplice, ossia sostanzialmente raddoppiando la melodia all'unisono oppure all'ottava, tuttalpiù, a quanto sembra di poter dedurre da una testimonianza delle Pseudo-Aristotele, in alcuni punti della melodia la linea strumentale poteva portarsi alla quinta alla quarta, ma solo per poi ritornare all'ottava o all'unisono alla fine della melodia o della frase.
Come esattamente venisse insegnato il campo, e sulla base di quali nozioni di fisiologia, è difficile dire. Non sono sopravvissuti scritti specifici sull'argomento nei manuali scolastici, posto  che bene fossero; è assai probabile che, poiché l'insegnamento avveniva per trasmissione diretta da maestro ad allievo, non si sentisse il bisogno di testi scritti. In ogni caso, le melodie apprese dai giovani allievi del kitharistes non dovevano essere molto impegnative sotto il profilo vocale. Dalla sezione 19 dei Problemi dello Pseudo-Aristotele deduciamo che la cetra usata dai ragazzi nei primi anni di studio aveva un'estensione di un'ottava circa; e poiché, come abbiamo visto, il canto veniva usualmente raddoppiato dallo strumento in maniera molto semplice, possiamo ipotizzare che anche le melodie studiate dei fanciulli negli anni della loro educazione musicale pubblica non andassero molto oltre questo ambitus.
La formazione ricevuta in gioventù doveva servire anche in età matura. Continuare a studiare uno strumento oltre la fanciullezza, sarebbe stata una distrazione delle attività politiche e militari dell'uomo libero adulto. Per il cittadino ateniese, l'attività musicale consisteva principalmente nella partecipazione ai cori e, in particolare, a quelli tragici e comici. Essi erano composti di uomini adulti non professionisti (da prima dodici, poi quindici con Sofocle), che venivano reclutati tra i cittadini liberi circa un mese prima degli spettacoli e addestrati da un chorodidaskalos ("maestro del coro"). I dettagli tecnici sulla preparazione del coro ci sono, purtroppo, sconosciuti: è particolarmente dolorosa, sotto questo aspetto, la perdita del Trattato sul coro di Sofocle, uno dei maggiori poeti compositori e uomini di teatro dell'Atene classica. Ciò che diremo è quindi frutto di deduzioni e congetture a partire da piccoli indizi tratti da fonti spesso disparate. Innanzitutto, e da presumere che le melodie cantate dai cori non richiedessero a particolari doti vocali, se non, ovviamente, la capacità di non stonare (apaidein) e di tenere il ritmo. Possiamo immaginare che il chorodidaskalos insegnasse la melodia per imitazione e, ove necessario, spiegasse come cantare meglio certi passaggi od ottenere determinati effetti. A una prova di coro allude, forse, l'inizio della parodo (il canto di entrata del coro) dell'Oreste di Euripide: all'entrata delle donne del coro, Elettra, preoccupata che i loro lamenti possano svegliare suo fratello, appena addormentatosi dopo essere stato a lungo tormentato dalle Erinni per avere ucciso la madre, da prima emette alcuni suoni inarticolati (trascritti nel testo con due lunghe "a") che potrebbero essere una sorta di esempio musicale, poi chiede al coro "di cantare con voce simile al soffio di una fistola di canna sottile". La situazione e il lessico fanno pensare che Elettra desideri ottenere dal coro, composto come sempre da uomini, un'emissione soffocata e smorzata in una melodia che, per giunta, si collocava probabilmente in un registro più acuto di quello consueto (almeno così riporta un antico commento marginale).
L'uso della similitudine della fistola (syrinx nel testo greco) non deve stupire in questo contesto: chi abbia dimestichezza con la didattica del canto sa come anche oggi gli insegnanti Si servono spesso di immagini fantasiose, dal palloncino sotto il diaframma, alla piccola bocca che l'allievo deve pensare di avere sopra alla nuca, allo sbadiglio, al sorriso; è quindi verosimile, a maggior ragione, che in un epoca in cui le conoscenze sulla fisiologia della voce erano enormemente più ridotte la didattica del canto ricorresse ancor più massicciamente a metafore e similitudini.
Ma un cittadino greco aveva anche la possibilità di ascoltare cantanti professionisti. Fin dall'epoca arcaica, infatti, il mondo ellenico pullulava di agoni poetico musicali. Le categorie principali erano il canto accompagnato dalla cetra (kitharoidia,  in cui il cantante si accompagnava da solo), il canto e accompagnato dall'aulos (auloidia,  per la quale ovviamente ocorrevano due esecutori), e l'esecuzione solistica alla cetra (psile kitharisis) o all'aulo (aulesis). Per di più, un nuovo stile musicale si diffonde ad Atene a partire dalla seconda metà del quinto secolo a.C., sull'onda dei mutamenti socio-politici innescati della vittoria ateniese sui Persiani, dell'instaurazione della democrazia periclea e della conseguente ascesa dei ceti popolari (demos)  a scapito della vecchia aristocrazia. La pratica aristocratica di fare musica tra pari cede il passo al apprezzamento di solisti che si esibivano negli agoni. Nasce il professionismo musicale in generale, e quello canoro in particolare; il che aveva anche conseguenze positive. l

Le opere della scuola peripatetica, che fiorisce proprio durante l'affermarsi di questa cosiddetta nuova musica, mostrano una rinnovata attenzione nei confronti della voce. Il  trattatello pseudo-aristotelico "Sugli gli oggetti dell'udito" mette in relazione diversi tipi di voce, ad esempio squillante o cupa, ferma o incerta, con altrettante caratteristiche fisiologiche dell'apparato fonatorio; nei problemi si discute del perché una certa nota sia particolarmente difficile da emettere, oppure alcuni strumenti siano più adatti di altri ad accompagnare il canto. Questo tipo nuovo interesse si accompagna ai progressi della Scienza acustica. 
Sarà Teofrasto, allievo diretto di Aristotele e suo successore alla guida del liceo, a descrivere la forza esercitata da coloro che cantano. Come infatti essi hanno bisogno di una certa forza per emettere le note acute, così anche per emettere quelle gravi. Nel primo caso stringono i fianchi e allungano la trachea (arteria), restringendola con forza; nel secondo caso allargano la gola (trachelos), poiché la larghezza fa ridurre la lunghezza.


Il mondo romano
Mentre le testimonianze sul valore morale dell'educazione al canto sono più abbondanti nel periodo della Grecia classica, è dal mondo greco-romano di età Imperiale che traiamo notizie più dettagliate sulla sua pratica, sia perché la spettacolarizzazione della musica iniziata nella Grecia ellenistica prosegue in epoca romana, sia perché avere una voce allenata e resistente allo sforzo era requisito necessario non solo per la professione del cantante ma anche per quella, assai apprezzata e redditizia, dell'oratore. Ciò è tanto vero che il retore Giulio Polluce (II° secolo dopo Cristo), autore di un grande lessico ragionato della lingua greca chiamato Onomasticon, adopera spesso i medesimi termini per definire la voce dell'oratore e del cantante ideali. A partire dall'età Imperiale (I° Sec.) appaiono i termini phonaskia e phonaskos (oppure anche phonaskikos), composti di phone "voce" e askeo "esercitare", che indicano rispettivamente l'esercizio professionale della voce e chi vi si dedica per mestiere. Per la prima volta abbiamo notizia di un trattato specifico sull'allenamento vocale, scritto da un certo Teodoro e purtroppo perduta anch'esso; l'autore potrebbe essere, ma è solo un'ipotesi, un maestro di retorica dell'età di Tiberio.
La pratica professionale del canto era considerata alla stregua di qualsiasi altra attività agonistica e quindi ritenuta capace di alterare la normale fisiologia, ad esempio contribuendo a ridurre le dimensioni dei genitali maschili e persino a bloccare il flusso mestruale nelle donne. Il cantante doveva conservare la propria forza attraverso una severa disciplina di vita, che implicava persino l'astinenza sessuale: è celebre la notizia di Claudio Eliano sul citaredo Amebeo che, pur avendo una moglie bellissima, non godette mai delle sue grazie. Come nello sport, anche nel canto la performance era di norma preceduta dal riscaldamento. Alcune pratiche sembrano intese ad ammorbidire l'organo vocale e a dargli il giusto grado di umidità, come nel caso dell'olio con il quale i cantori, a quanto pare, si massaggiavano la gola. Altre sembrano invece più specificatamente musicali, come quella descritta da Cicerone e consistente nell'eseguire una sorta di glissato dalle regioni più gravi alle più acute dell'estensione vocale, prima in posizione supina e poi seduti:un esercizio che sembra concepito, come si dice oggi, per collegare i registri.
La testimonianza ciceroniana è confermata da un passo dell'astronomo e matematico Claudio Tolomeo (II sec. d. C.), il quale riporta "che coloro che si esercitano nel canto iniziano a cantare dalle note più gravi e terminano di nuovo su quelle", per poi specificare che "le altezze più gravi fuoriescono dalle viscere e le più acute dalle tempie". La seconda affermazione è assai importante: da un lato infatti indica la distinzione tra un registro di petto e una di testa, che oggi è del tutto scontata ma non lo era affatto nel mondo antico (anzi, per quanto ne sappiamo, potrebbe essere attestata per la prima volta però che in questo passo tolemaico); dall'altro lato pone le premesse per l'instaurarsi della metafora verticale, tutt'ora usata in molte lingue, secondo la quale l'acuto è "alto" e il grave è "basso". Questa metafora è ben diversa da quella, più antica, presupposta delle lingue greca e latina, che era piuttosto di tipo tattile o ponderale e indicava l'acuto come oxys / acutos, "appuntino" o "aguzzo", e il grave come barys / gravis, "pesante".
Un caso illustre di cantante professionista, almeno nelle intenzioni, è quello dell'imperatore Nerone. Narra Svetonio che egli, essendo divenuto estimatore di un celebre citaredo di nome Terpno, e volendo eguagliarlo, decise di seguire un programma di allenamento professionale. E' assai probabile, anche se il geografo non lo specifica, che lo abbia fatto sotto la guida dello stesso Terpno. Nerone era appena all'inizio del suo regno (statim ut Imperium adeptus est, sottolinea Svetonio) il che significa che era poco più che diciassettenne, ed è da presumere che si sia gettato nell'impresa con tutto l'entusiasmo di un adolescente desideroso di gloria. Il programma implicava l'astinenza "dalla frutta e dai cibi nocivi" (purtroppo non sappiamo quali fossero), l'assunzione di emetici e, inoltre, la curiosa attitudine di sdraiarsi supino tenendo sul petto una lastra di piombo. 
Provando a interpretare in termini moderni un laconico accenno di Svetonio, secondo il quale Nerone era "exiguae vocis et fuscae", potremmo ipotizzare che la voce dell'imperatore avesse due punti di debolezza: non era molto potente (exigua) e non aveva quello che oggi chiameremmo squillo (fusca). Il regime alimentare era forse pensato per risolvere il secondo problema, eliminando le impurità che potevano offuscare la voce (ora sappiamo essere problemi spesso legati al reflusso esofageo); mentre il peso sul torace doveva servire ad allenare i muscoli che presiedono alla respirazione, nella convinzione che la voce avrebbe guadagnato in potenza. Non sapremo mai se il programma abbia dato i frutti sperati: sembra però che il giovane imperatore non avesse grande fiducia nei propri mezzi vocali, se, dovendo competere negli agoni di Corinto contro un temibile avversario epirota, per assicurarsi la vittoria non trovo di meglio che mandare i suoi uomini a immobilizzarlo e colpirlo sulla gola fino a spezzargliela (l'aneddoto è riportato da Filostrato in "Nerone").

ICONOGRAFIA 

(immagini da Wikipedia e altre fonti libere dal web)

Grecia Antica

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Periodo Greco-Romano e Romano

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Sistro greco-romano

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Loredana Atzei

2023-03-13 19:37

La recensione e le interviste di Loredana Atzei agli interpreti della Serva Padrona di Pergolesi andata in scena con successo al Teatro Mazzacorati di Bologna

I Capuleti e i Montecchi al Verdi di Trieste: un recupero tra metateatro e voci preziose - Recensione di Gianluca Macovez
News, Musicologia generale, Curiosità, Recensioni, opera, recensione,

I Capuleti e i Montecchi al Verdi di Trieste: un recupero tra metateatro e voci preziose - Recensione di Gianl

Gianluca Macovez

2023-03-09 13:00

Recensione di ‘I Capuleti e i Montecchi’ di Vincenzo Bellini in scena al Teatro Verdi di Trieste dal 24 febbraio al 5 marzo 2023

News, Musicologia generale, Recensioni, opera, recensione,

"Tosca" al Teatro Carlo Felice di Genova - Recita con Oksana Dyka - Recensione di Fulvio Venturi

Fulvio Venturi

2023-03-07 22:30

Una “Tosca” solida al Carlo Felice di Genova con Oksana Dyka chiamata a sostituire Maria José Siri. Apprezzati Riccardo Massi e Amartuvshin Enkhbat

Musicologia generale, Curiosità, Recensioni, opera, recensione,

"Il Tamerlano" in scena al Teatro del Giglio di Lucca - Recensione di Fulvio Venturi

Fulvio Venturi

2023-02-19 23:32

"Il Tamerlano" diretto da Dantone, con la regia di Stefano Monti, arriva come ultima tappa al Teatro del Giglio di Lucca. Recensione di Fulvio Venturi

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