Premessa
Questa raccolta di brevi racconti è nata come una sorta di ringraziamento a quegli interpreti che hanno saputo regalarmi emozioni, sentimenti forti, sensazioni delicate, sfumature di raffinata poesia nel mio mezzo secolo abbondante da pubblico
Qualche timido ritratto; delle storielle ingenue; alcuni aneddoti vissuti in prima persona, il tutto senza nessuna pretesa di fingersi esperti musicologi o giudici di carriere: sono Memorie inutili di uno spettatore irrilevante, che difende strenuamente il diritto di essere del tutto insignificanti dal punto di vista critico-musicale.
Non è questo il luogo in cui pesare note e contare la durata degli acuti.
Parliamo di brividi, di un canto che ti rapisce , oppure di fastidiosi atleti del pentagramma, che svolto il compito, senza aver raccontato nulla di vero si compiacciono del loro esibizionismo sonoro.
Niente di importante, nulla di dogmatico, solo ricordi che desiderano essere affettuosi, anche nei passaggi più pungenti e critici, con un particolare riguardo verso quegli artisti che non hanno raccolto tutto il successo ed il consenso che avrebbero meritato. Forse anche per un gioco di calcoli e di strategie molto più commerciali che artistiche.
Ogni artista ricordato ha regalato qualcosa, nel bene e nel male. Entusiasmando o deludendo ha alimentato le domande, ha costruito un gusto e regalato emozioni.
Questa è un’occasione per ricordarli, per ringraziarli, per dimostrare che le emozioni seminate danno frutti sempre, indipendentemente dai riscontri ufficiali e dalla popolarità.
Un percorso nel teatro, fatto da un viaggiatore maldestro, che ha avuto il piacere di vedere un po’ di tutto, dagli spettacoli leggendari, alle serate sbagliate.
Saranno pagine terribilmente oneste, anche quando il mio gusto è molto poco politicamente corretto, anche quando il racconto mi fa fare una pessima figura, anche quando le considerazioni sono di nicchia e controcorrente.
Sono contento se quello che a me non è piaciuto in quel momento ad altri ha suscitato entusiasmo, perché vuol dire che non ero ancora pronto, che non avevo capito, che c’era strada da fare.
Assicuro che l’atteggiamento è sempre stato di accoglienza: non sono mai andato a teatro sperando nel fiasco, sono sempre stato disponibile alla sorpresa, ho inseguito con avidità ragioni per apprezzare, non ho narcotizzato il mio entusiasmo.
Ho anche cercato di non regalare applausi a performance che non lo meritavano, perché in quel modo si manca di rispetto agli artisti. Avvallare scelte sbagliate significa non riconoscere la loro grandezza, pensare che non abbiano più nulla da dare. Ho sempre ritenuto che una contestazione, garbata e rispettosa, sia la prova di grande stima, la dimostrazione di una fiducia incrollabile, la segnalazione di un ‘opinione divergente lanciata in difesa di un talento. Ovvio che poi ognuno prosegue come crede, perché l’arte alla fine è questo: un lungo dialogo, prima di tutto con noi stessi, in cerca di emozioni, di momenti di vita, ma anche di stupori, delusioni, scoperte inimmaginabili, volto soprattutto a comprendere e condividere la meraviglia dell’imperfezione.
Queste memorie sono state giù in gran parte pubblicate, ma quello che leggerete è una nuova revisione, arricchita di alcuni documenti che mi sembrano interessanti, perché daranno ad ognuno, anche a coloro che non conoscono l’interprete di cui parliamo, di farsi un’idea. Ho tenuto conto delle osservazioni che sono state inviate alla pagina Memorie inutili di uno spettatore irrilevante: mezzo secolo in platea, così molti di voi potranno rivedersi nelle mie righe. Un modo si rendere omaggio agli appassionati dell’opera, capaciti di affrontare viaggi faticosissimi, file interminabili, saltare pasti e rincorrere coincidenze ferroviarie per una serata di musica, per il profumo di note che aprano il cuore, per riuscire a specchiare la propria vita nel canto di uno sconosciuto che ci pare faccia parte del nostro vissuto da sempre.
Gianluca Macovez
QUEL BIS MANCATO
I miei genitori erano appassionati d’opera. Non esperti, non melomani incalliti, ma appassionati assolutamente si.
Ricordo che esisteva un salvadanaio dove si mettevano da parte le monetine trovate, quelle vinte a tombola, i piccoli risparmi e quando la cifra raggiunta era sufficiente, si procedeva all’acquisto di un disco.
Grandi discussioni, naturalmente. Perché la faziosità è dote necessaria di un melomane. Quando l’appassionato è arrogante ed ostinato, questa genera violenza ed ottusità; quando invece ci ricordiamo che l’educazione è alla base di ogni forma di autentica cultura, l’essere divisi genera meravigliose discussioni, spesso sul nulla, ma appassionanti e molto interessanti.
Mia madre era una fan di Corelli. Non so dire se solo perché era tanto bravo od anche perché era esageratamente bello.
Di fatto nella mia infanzia c’è costante il ricordo dell’affascinante Franco, con una espressione da rubacuori, che mi guardava dalla copertina dell’Andrea Chenier.
Inevitabile che papà, che poi diventò un ammiratore incondizionato di Cappuccilli, in quel periodo fosse un estimatore di Mario Del Monaco.
Mi sembra posizione inattaccabile: rispondere alle grazie fisiche e musicali dell’elegante tenore anconetano, con l’irruenza, vocale e muscolare del macho veneto.
Non era solo una questione di opera lirica, si trattava di difendere il ruolo di marito insidiato da tanta magnetica bellezza,
Per quel che mi riguarda, ovviamente a sei anni non capivo nulla d’opera, un po’ come adesso.
Ma come adesso mi piaceva rompere le scatole e ricordo l’espressione disgustata dei miei quando comunicai che al mio turno la scelta era caduta su un Falstaff con Pia Tassinari e Giacomo Rimini. Ovviamente non c’erano margini di trattativa. Quello avevo scelto e quello volevo.
Era nato un mostro cocciuto, che si lasciava guidare dall’istinto e che amava essere bastian contrario.
Un cucciolo di melomane, insomma.
I miei andavano all’opera con una certa frequenza.
Abbonati al Verdi a Trieste, erano andati alla Scala per una leggendaria Turandot con la regia della Wallmann, le scene di Benois, sul quale peraltro vent’anni dopo mi sono laureato, le voci indimenticabili di Birgit Nilsson e Mirella Freni.
Qualche spettacolo nella ricca provincia veneta, qualche allestimento estivo.
Insomma delle persone che amavano l’opera senza essere degli integralisti del pentagramma.
Anche per me ci fu il momento dell’esordio come spettatore d’opera; il 23 luglio 1970, all’Arena di Verona, per Carmen, con le scene ed i costumi di Pier Luigi Pizzi, la regia di Luca Ronconi e la direzione di Oliviero De Fabritiis.
Anche il cast era di grande livello: la sigaraia era interpretata da Mignon Dunn, una cantante americana bianca che curiosamente nel programma della stagione si era fatta fotografare truccata come fosse una sorta di sorella di Grace Bumbry, peraltro protagonista originariamente prevista.
Micaela di grande fascino vocale e di purezza adamantina era Maria Chiara, soprano che incontrai più volte e che sulla scena mi ha sempre entusiasmato.
Escamillo era il grandissimo Piero Cappuccilli, cantante amatissimo i casa e che avremmo visto tante volte negli anni seguenti.
Erano anni favolosi per gli interpreti italiani e nei ruoli ‘secondari’ c’erano giganti dell’opera come Giovanni Foiani, Piero De Palma, Elena Zilio.
Ma sopra tutti, anche per le considerazioni fatte prime, c’era Franco Corelli, Don Josè senza rivali e da sempre uno dei beniamini dell’Arena.
Corelli era un divo, aiutato in questo anche dal volto da attore hollywoodiano, dal fisico asciutto e prestante e naturalmente da un mezzo vocale invidiabile.
Caratterialmente all’opposto dell’istrionico Mario Del Monaco, aveva una frotta di fan fedelissimi, che adorava la sua eleganza, la misura, la bellezza della voce e la capacità di non uscire mai dalle righe.
Si racconta di un carattere introverso, di un uomo che nel corso della carriera ha sofferto molto per paura di mancare gli obiettivi, di una certa tendenza a cancellare gli spettacoli se non era perfettamente in forma.
Non capricci, come tentarono di dire i suoi detrattori, , ma un senso del dovere ed un rispetto verso il pubblico che molti degli interpreti del decennio successivo hanno sotterrato sotto montagne di denaro.
Narrano che nei giorni precedenti alle repliche non parlasse per non affaticare l’ugola; che la moglie Loretta Di Lelio, a sua volta cantante lirica, si fosse ritirata per poterlo seguire ed accudire; che fosse convinto, naturalmente sbagliando clamorosamente, di avere le gambe troppo grosse e chiedesse ai costumisti di ricorrere ai trucchi più insoliti per apparire più slanciato; che durante lo spettacolo facesse posizionare delle tazzine di caffè in punti strategici per riuscire a ritemprarsi dalla fatica.
Che fossero leggende, realtà, chiacchiericcio invidioso o stima incondizionata, poco importa: attorno a lui sempre una grande attesa, che peraltro il ritiro dalle scene e la morte hanno acquietato solo in parte visti i post di incondizionato amore che sono apparsi a commento della prima versione di questo racconto.
Lo spettacolo areniano era molto efficace, anche grazie a delle scene di grande impatto.
Pierluigi Pizzi era riuscito a costruire una Spagna simbolica, moderna ma non provocatoria, molto d’effetto, con strutture lignee in bilico fra il gigantesco cantiere ed il possente monumento, che la regia di Ronconi aveva popolato di zingare multicolori, toreri in abiti luminosi pieni di paillettes, banditi festosi, cavalli in scena, ballerine di flamenco, chitarre e nacchere, in un continuo via via, mai fuori controllo, ma estremamente naturale.
In questo mondo festaiolo e pittoresco, Corelli si muoveva con la classe che gli era propria, bravissimo e misurato.
La serata fu un susseguirsi di applausi a scena aperta.
Quando arrivò la ‘romanza del fiore’, l’opera era cantata in italiano, il tenore era in stato di grazia.
L’anfiteatro avvolto in un mutismo assoluto, metafisico, assaporava l’aria.
Alla fine dell’acuto, un attimo di silenzio glaciale e poi l’esplosione: quasi un quarto d’ora di battimani, di bravo, di richieste di bis.
De Fabritiis tenta di riprendere lo spettacolo, ma il pubblico insiste.
Ormai è un coro di ‘bis bis’.
Corelli rimane immobile. Forse un timido sorriso, ma neanche un cenno di assenso.
Si gode il trionfo, ma non cede alle richieste.
Non solo bello, ma anche irremovibile come una statua greca.
Placato il pubblico, l’opera riprende ed alla fine si chiude con un altro tripudio di applausi per tutti e per l’amatissimo Don Josè in modo particolare.
Uno spettacolo bellissimo, un cantante eccezionale.
Che in un’ intervista anni dopo spiegò che non amava concedere i bis per una serie di comprensibili ragioni.
La narrazione dell’opera, la stanchezza, il rischio di fallire l’obiettivo e lasciare un cattivo ricordo, il rispetto per i colleghi.
Tutto più che giusto, ma a me è rimasto il dispiacere di non aver riascoltato quell’aria.
In realtà non perché volessi sentirla due volte.
Ero troppo piccolo ed inesperto per capire realmente qualcosa di più del ‘ mi piace’.
Avrei voluto però che in quella sera magica, l’eroe del belcanto ci regalasse un momento di serena imprevedibilità, correndo il rischio di essere un uomo, donandoci il brivido dell’irrazionalità.
Ma forse è meglio così.
Avere il dono della misura e non esagerare sono doti rare ed è meglio coccolare la malinconia di un rimpianto che ricordare la delusione di un errore di un eroe che è rimasta invincibile.
AUDIO GALLERY
(1970: Carmen in Arena di Verona documenti)
Esistono diversi documenti audio inerenti lo spettacolo del 23 luglio 1970 a cui ho assistito:
La romanza del fiore cantata da Franco Corelli può essere ascoltata grazie a questa bella registrazione live, di cui di seguito altri brani.
Franco Corelli e Mignon Dunn cantano il duetto "E’ tuo… è mio"
Il soprano Maria Chiara interpreta la versione in italiano di "Je dis, que rien ne m'épouvante"
Infine il duetto tra Maria Chiara e Franco Corelli "Parlami di mia madre"
Franco Corelli, qualche pennellata biografica di una stella
Franco Corelli è stato uno dei più importanti tenori italiani del secondo Novecento.
Nato ad Ancona nel 1921 in una famiglia di musicisti. L’attività di nuotatore gli scolpì il fisico e, diplomatosi geometra, iniziò a lavorare in Comune di Ancona. La passione per la musica faceva parte del suo corredo genetico e presto cominciò, quasi per gioco, a cantare come baritono nella Corale Bellini , assieme all’amico Carlo Scaravelli, che lo presentò al Maestro Arturo Melocchi del Conservatorio di Pesaro, che lo guidò al registro tenorile, che raggiunse in pochi mesi.
La sua era una voce ampia, dal magnifico colore, dal volume prorompente, in grado di avvolgere le platee.
All’inizio uno strumento del genere non era semplice da gestire, anche per qualche disomogeneità, ma il tenore imparò presto a governare un mezzo vocale così ricco. Nel 1950 fu ammesso a un corso di perfezionamento presso il Teatro Comunale di Firenze.
Nel 1951 vinse il concorso del Teatro lirico sperimentale di Spoleto, vera miniera di talenti ed iniziò, proprio nel ruolo di Don Josè della Carmen, la carriera che lo portò in tutto il mondo.
Brucia le tappe ed il suo repertorio è molto vasto, con presenza di grandi titoli, come Carmen ed Andrea Chenier, ma anche di opere semisconosciute come Romolus di Allegra o Enes di Guerrini.
Memorabili gli spettacoli accanto a Maria Callas, ma al suo fianco si sono cimentate le maggiori voci del secolo: dalla Caniglia alla Nilsson, dalla Olivero alla Tebaldi, dalla Casapietra alla Price.
Forte di una presenza fisica atletica, di una tavolozza di espressioni di grande efficacia e di una buona capacità interpretativa, fu protagonista di diverse edizioni televisive di opere liriche.
In particolare la prima opera trasmessa in televisione fu Pagliacci, protagonista Corelli, con a fianco Tito Gobbi e, nella parte di Nedda, il soprano Mafalda Micheluzzi, che spesso cantò al fianco del tenore e della moglie, che presto lasciò la carriera per seguire lo sposo.
Mafalda descriveva Corelli come un grande professionista, riservato, che non amava i clamori che tanto entusiasmavano altri principi del palcoscenico.
Un uomo gentile, che non amava i duelli a colpi di acuto e mettere in difficoltà i colleghi.
Accanto a lui la signora Micheluzzi cantò in moltissime occasioni e possiamo mostrare alcune foto provenienti dall’album del soprano che documentano alcuni di quegli spettacoli,
Nonostante il successo mondiale, finchè cantò continuò gli studi per perfezionare sempre di più la sua tecnica, sotto la guida di Giacomo Lauri Volpi.
A partire dal 1961 fu una delle punte di diamante del Metropolitan, dove trionfò per quindici stagioni, fino al 1975, che fu l’anno precedente al ritiro, avvenuto quando la voce gli avrebbe permesso ancora grandissimi trionfi, in una edizione di La Boheme a Torre del Lago.
In realtà nel 1981 ci fu un momentaneo ritorno in scena, in occasione del concerto in onore di Birgit Nilsson, ce dimostrò a tutti come il tenore avesse ancora uno strumento vocale di grande qualità.
Morì a Milano nel 2003 a seguito di un ictus, ed il teatro di Ancona è a lui intitolato.
Il grande tenore Franco Corelli interpreta l'aria del Fiore della Carmen, in un video registrato per la televisione in studio
Documenti corelliani
Termina questo articolo una galleria di immagini poco note che vedono come protagonista il grande Franco Corelli
La locandina di Romeo e Giulietta di Zandonai rappresentata al Teatro dell'Opera di Roma nel 1952 (nel cast anche Loretta Di Lelio che poi diverrà la moglie di Corelli nel 1958). Nella foto Mercedes Fortunati (Giulietta) e Franco Corelli (Romeo).
Foto con didascalia tratta da un giornale dell'epoca
Foto inedite della Turandot andata in scena al Teatro La Gran Guardia di Livorno nel 1960 con Franco Corelli
Materiale fotografico dell'archivio di Gianluca Macovez