Quella andata in scena alla Scala il 15 Ottobre è una Fedora con un unico grande protagonista: il Conte Loris Ipanov a cui dà corpo, voce e anima il tenore Roberto Alagna al suo debutto nel ruolo.
Il suo ritorno nel tempio della lirica dopo 16 anni è un ritorno trionfale e questo basta a rendere memorabile e storico questo spettacolo.
La sua interpretazione è emozionante, viva, carica di passione e sentimento e tanto serve a rendere magica la serata.
Tutto il resto è in ombra: Sia perché lui è un sole che catalizza l’attenzione del pubblico, sia perché una regia del tutto anonima e insensata non aiuta gli interpreti.
Solo un vero mattatore poteva prendere una serata destinata all’oblio e trasformarla in un evento indimenticabile.
E così è stato.
La Regia di Mario Martone trasforma l’elegante spy-story, del grande drammaturgo Victorien Sardou trasposta in dramma lirico da Umberto Giordano, in qualcosa di irriconoscibile.
Il presupposto per questa operazione è l’affinità della Fedora con il surrealismo di Magritte.
Descritte entrambe come opere indecifrabili e in apparenza incomprensibili.
Ma in realtà Fedora non è incomprensibile. E’ un mistero che si tramuta in suspense e finisce in tragedia, passando per la commedia.
Un meccanismo che per essere perfetto ha bisogno di tutti i suoi elementi: Un preciso tempo storico, costumi e gioielli preziosi, scene sfarzose.
La regia di Martone tralascia le indicazioni sceniche del libretto scritto da Arturo Colautti.
Non da importanza ai costumi e agli arredi di fine Ottocento, quell’estetica che è tutto un tripudio di costumi lussuosi, gioielli, scenari liberty e che il film “Fedora” di Camillo Mastrocinque, con Amedeo Nazzari e Luisa Ferida, (affascinanti e bellissimi) ha contribuito a consegnare all’immaginario collettivo.
Infine dimentica l’importante connotazione storica.
In cambio offre costumi e arredi moderni, un’ambientazione dove domina il non-sense, in un periodo storico imprecisato.
Ottiene il risultato di portare in scena una Fedora teatralmente debole, visivamente povera, tutta incentrata su un’idea di partenza forzata.
La prima scena si apre su una stanza asettica. Un piano alto di un palazzo oltre quale si vedono i grattacieli di una grande metropoli. Un televisore al plasma da 52 pollici è sintonizzato su una partita di calcio.
La servitù attende il ritorno a casa del Conte Vladimiro Andreyevich.
I costumi di Ursula Patzak sono attuali e senza alcuna coerenza stilistica. Si dividono tra cappottoni scuri, ormai imprescindibili, e abiti civili che, sebbene eleganti, restano anonimi.
Le scene di Margherita Palli sono essenziali, fredde, spesso oniriche fortemente virate al surreale soprattutto nella ricostruzione dell’ambiente dell’ultimo atto che riprende esattamente la tela di René Magritte “L’assassino minacciato”.
Il pittore Belga verrà ancora citato innumerevoli volte durante l’Opera.
Vladimiro ad esempio farà una fugace apparizione steso su una slitta con il volto coperto da un telo bianco cosparso di sangue. Un misto tra il quadro “Gli amanti” e un’allusione, forse, al quadro “La memoria” dipinta come una testa marmorea che sanguina dalla tempia.
E poi i due fedifraghi, Vladimiro e Wanda, appaiono come fantasmi del passato con il volto velato dal candido velo che richiama sempre lo stesso quadro, “Gli amanti”.
Poco dopo sullo sfondo appare anche la madre di Loris.
La vediamo inginocchiata a terra mentre dispone stancamente dei fiori in un vaso.
Uno stratagemma visivo che, materializzando le immagini durante il duetto tra Loris e Fedora, vanifica di fatto la potenza evocativa della parola.
I balletti della coreografa Daniela Schiavone sono decisamente fuori contesto. Durante la festa in Villa si balla di tutto: dalla danza russa alla break dance.
Funzionali e creative invece sono le luci di Pasquale Mari che creano il giusto ambiente e guidano l’occhio dello spettatore sui protagonisti.
A quel punto, focalizzata l’attenzione su di loro, ci si può rilassare e godere della serata.
La bacchetta sicura e precisa di Marco Armiliato dirige l’Orchestra del Teatro Alla Scala dipingendo una Fedora musicalmente ricca di sfumature. La sua è una lettura della pagina musicale efficace in tutte le molteplici sfaccettature di un’opera capace di alternare momenti di leggerezza festante, quasi da operetta, a drammi intensi di stampo verista.
Una direzione che si mette a servizio dei cantanti e assicura una buona resa corale. Decisamente felice l’esecuzione dell’interludio per soli archi del secondo atto che innalza l’atmosfera a livelli sublimi.
La protagonista, Fedora, è interpretata dal soprano bulgaro Sonya Yoncheva al suo debutto.
Già al primo ingresso cattura l’occhio per avvenenza. Avvolta in un cappotto con inserti di pelliccia e un colbacco sui lunghi capelli biondi si presenta sulla scena altera e passionale. In seguito apparirà vendicativa, innamorata, disperata. Sulla scena la sua interpretazione funziona anche se c’è molto spazio per migliorare il personaggio e affrontarlo in modo più profondo con tutta la sua complessità.
Se la recitazione può essere considerata abbastanza convincente l’interpretazione presenta qualche difetto di troppo. Il ruolo pare un po’ troppo impervio per la sua vocalità. Mantiene la giusta brillantezza del suono nel registro acuto ma non mostra altrettanto controllo sulla parte centrale e grave del registro. Inoltre la dizione ogni tanto difetta e il canto risulta spesso piatto. Privo di reale ispirazione soprattutto nel primo atto. Più convincente nel secondo atto soprattutto nel duetto con Loris dove sfoggia temperamento e acuti sostenuti lungamente arrivando però piuttosto stanca al terzo atto.
Bene ma non benissimo.
Si confida che nelle recite successive possa inquadrare meglio il personaggio.
Una donna che è l’incarnazione di tutte le seduzioni e di tutti i difetti femminili, come disse Sarah Bernhardt, la prima attrice ad incarnarla in teatro.
La Fedora che crede colpevole il Conte Loris Ipanov dell’omicidio del suo Vladimiro è una cacciatrice spietata, un’abile spia senza cuore, o almeno questo è quello che crede.
Lo cerca, lo segue, lo incontra e fa l’errore più grande della sua vita. Se ne innamora.
E lui, Loris Ipanov, è Roberto Alagna che, come una calamita, attira l’attenzione su di se.
Vestito in un elegante smoking scuro si aggira intorno a Fedora corteggiandola fino a trarla in disparte e, restati soli, tra mani che si sfiorano e sguardi che si cercano, intona un “Amor ti vieta…” talmente partecipato e vibrante, carico di bruciante passione, da risultare straziante. Come se il cuore non potesse sopportare tanto ardore.
Il teatro esplode in un applauso fragoroso, ricco di “Bravo!!!” che si ripetono senza tregua.
Ed è solo l’inizio di un’interpretazione tutta in crescendo.
Nella confessione dell’omicidio si abbandona ai ricordi tra sentimenti di nostalgia per la madre e dolore struggente.
Con ritmo serrato e voce sempre salda spiega i fatti.
Con ferocia a stento trattenuta rivela il tradimento della donna amata con il suo migliore amico.
Uccide si! Ma in risposta allo sparo di Vladimiro che lo ferisce a un fianco.
Fino ad arrivare all’aria “Mia madre…” intensa, emozionata, disperata nel doloroso e musicale pianto.
I coprotagonisti dell’opera sono di buon livello.
La Contessa Olga Sukarov è interpretata con la giusta dose di annoiata civetteria da Serena Gamberoni. Voce ben adatta al personaggio, melodiosa e ricca di armonici. Si presenta nel secondo atto sfoggiando uno splendido abito da sera in seta di raso con spacco vertiginoso su di un corpo splendido. Si destreggia bene passando dall’introduzione di Lasinsky al duetto con De Siriex.
Nel terzo atto si esibisce pedalando in bicicletta. Certamente è apprezzabile il gesto atletico ma il registro comico ne risente e la scena perde di mordente.
Nonostante la presenza della bici l’arietta a lei dedicata “Se amor ti allena, se amor ti guida…”viene tagliata.
Incongruenze a parte la Gamberoni offre decisamente una ottima prova.
George Petean interpreta De Siriex con un fraseggio curato e un timbro interessante. Se nel primo atto, in qualche punto, sembra fare fatica a superare il muro orchestrale nel secondo si rivela un buon interprete con una voce sicura e ampia. Simpatico nell’aria “La donna Russa…” con cui risponde ad Olga dopo averla definita Cosacca e ugualmente divertente nel siparietto con Olga all’inizio del terzo atto.
Gli interpreti di fianco sono di alto livello a cominciare da Caterina Piva che interpreta Dimitri, e Cecilia Menegatti solista del Coro di voci bianche dell’Accademia del Teatro Alla Scala diretto da Bruno Casoni, che interpreta un piccolo Savoiardo.
Seguono Gregory Bonfatti nel ruolo di Desiré, Carlo Bosi nel ruolo del Barone Rouvel, Andrea Pellegrini nel ruolo di Cirillo, Gianfranco Montresor nel ruolo di Borov, e Romano Dal Zovo nel ruolo di Gretch.
Completano il cast Costantino Finucci che interpreta Lorek, Devis Longo che interpreta Nicola, Michele Mauro e Ramtin Ghazawi nei ruoli, rispettivamente di Sergio e Michele
Si raggiunge il finale d’opera con livelli di tensione altissimi.
Un’interpretazione dei due protagonisti al cardiopalmo che tiene avvinti e immersi completamente nella tragedia dei due amanti.
Loris scopre la morte del fratello e della madre, Fedora si distacca da lui, atterrita dalle conseguenze.
E’ per lei che sono morti e teme il momento in cui lui lo scoprirà.
Lui la raggiunge sul divano, si sdraia vicino a lei, cercando conforto alle sue lacrime, ma ormai la verità è vicina. La suspense è al culmine.
L’uomo capisce che Fedora lo ha tradito e lei, non potendo ottenere il suo perdono, si avvelena.
Il finale li trova avvinti nell’ultimo amplesso. La giacca di lui poggiata sulle spalle di lei. Un ultimo tentativo di scaldare un corpo che le spire della morte stanno già gelando.
Sulle note di “Amor ti vieta” Loris la bacia, la abbraccia e le concede il perdono. Lei muore con sulle labbra un ultimo bacio mentre un crescendo orchestrale accompagna la chiusura del sipario.
Seguono un mare di applausi per tutti gli interpreti, una vera e propria ovazione per Roberto Alagna, qualche “Buuu” impietoso all’indirizzo della Yoncheva alla quale non si può certo rimproverare di non aver dato spettacolo nonostante tutto, e una più nutrita contestazione rivolta al regista, alle scene, ai costumi e alla coreografia accolta da un gesto stizzito di Mario Martone all’indirizzo del pubblico.
Tuttavia di questa serata rimarrà indelebile il ricordo delle pagine musicali straordinarie del capolavoro di Umberto Giordano eseguite con il giusto impeto e premurosa dolcezza dalla direzione attenta e sensibile di Marco Armiliato.
Ma soprattutto rimarrà la generosa ed emozionante interpretazione di Roberto Alagna nel suo ritorno trionfale alla Scala.
Un ritorno tanto atteso dai suoi estimatori, anche se, dal profondo dei loro cuori, lui non se n’era mai andato.
di Loredana Atzei
(credit foto: Marco Brescia e Rudy Amisano - Sito Teatro alla Scala)
Video delle interviste al M° Marco Armiliato e al regista Mario Martone disponibili sul canale youtube ufficiale del
Teatro alla Scala