Lucia Valentini Terrani
Lucia Valentini Terrani, nata nel 1946 e morta nel 1998, è stata una grandissima artista, dotata di una voce dalla notevole estensione, che le permetteva si affrontare sia il repertorio da contralto che quello da mezzosoprano.
Allieva di Adriano Lincetto e di Iris Adami Corradetti, esordì da protagonista, poco più che ventenne, a Brescia, come Angelina nella Cenerentola di Rossini, un titolo che affrontò nel corso di tutta la carriera.
Nel 1972 vinse il Concorso internazionale per voci nuove rossiniane, organizzato dalla RAI e la vittoria la portò nei principali teatri di tutto il mondo.
Nel 1973 sposò l’attore Alberto Terrani, che divenne il suo consulente ed il suo manager.
Il binomio fra i due venne sancito anche simbolicamente dall’aggiunta del cognome del marito al proprio: da quel momento Lucia Valentini era diventata Lucia Valentini Terrani.
All’inizio la carriera fu incentrata soprattutto sul repertorio buffo rossiniano: alla Cenerentola, interpretata in tutti i principali teatri, si aggiunsero una strepitosa Isabella di Italiana in Algeri, una accattivante Rosina del Barbiere di Siviglia, il ruolo del paggio Isoliero ne Il Conte Ory e di Carlotta nel Torvaldo e Dorliska,.
Pian piano il repertorio si aprì ad altri personaggi: fu sontuosa Marine nel Boris Godunov di Modest Musorgskij, che inaugurò la Scala nel 1978, ma anche struggente Carlotta nel Werther, intensa Dulcinea nel Don Quichotte di Massenet, sicura Mignon di Thomas.
Negli anni Ottanta, assieme a Marilyn Horne , è fra le principali artefici della riscoperta del Rossini serio.
Rispetto alla collega americana, la Terrani riesce a non far mai prevalere l’aspetto tecnico su quello interpretativo scrivendo pagine indimenticabili di belcanto.
Nel 1981 interpreta, al Regio di Torino, Arsace in un allestimento della Semiramide, firmato Pier Luigi Pizzi , che verrà riproposto per anni nei più importanti teatri, in Italia ed all’estero, compreso il Verdi di Trieste, nel 1982, dove si esibirà diretta da Daniel Oren ed affiancata da Lella Cuberli , Roni e Martinovich.
L’anno seguente un’altra tappa fondamentale per il recupero del Rossini serio: Tancredi al Rof , accanto alla Ricciarelli con cui aveva condiviso il trionfo torinese di Semiramide e con la quale formerà un binomio di grande rilevanza artistica.
Ancora a Pesaro, nel 1983, il recupero di La donna del Lago, in uno spettacolo con le scene firmate da Gae Aulenti. Le sono affianco Katia Ricciarelli, all’apice delle sue potenzialità ed uno straordinario Samuel Ramey.
Anche questo spettacolo venne riproposto a Trieste, nel 1986, con la direzione di Arena ed affiancata da Cuberli, Gonzales, De Corato e Raffanti. Fu ancora una volta un successo clamoroso.
Fece parte del cast di Il viaggio a Reims, sempre a Pesaro, a fianco di Katia Ricciarelli, Cecilia Gasdia, Bernadette Manca di Nissa, William Matteuzzi, Leo Nucci, Samuel Ramey, Ruggero Raimondi e Enzo Dara, sotto la direzione di Claudio Abbado e per la regia di Luca Ronconi, un allestimento entrato a pieno diritto nella storia del teatro del secondo Novecento e trasmesso in diretta dalla RAI.
Al di là di la di un magnifico timbro, di una voce molto estesa, di una tecnica solida, una delle doti più evidenti della Valentini Terrani era il grande carisma in scena, la capacità di interpretare i ruoli con grande credibilità, fossero fragili fanciulle, come Angelina, portata in scena anche a Trieste nel 1980 o nerboruti guerrieri, come il suo Arsace.
Pirotecnica nei virtuosismi, seppe evitare gli eccessi ed i meccanicismi, riuscendo a coinvolgere il pubblico nella narrazione drammaturgica anche nelle pagine più tecniche e schiettamente belcantistiche, regalando momenti di assoluto trasporto artistico che la rendono indimenticabile per tutti coloro che hanno avuto la possibilità di ascoltarla in teatro.
Ascolti
Partiamo da una pagina di Domenica In. Ricciarelli e Terrani propongono il bel duetto tra Semiramide e Arsace.
Una pagina decisamente poco popolare, inadatta alla trasmissione domenicale, ma la classe è assoluta e le due primedonne conquistano il pubblico, anche quello più distratto.
Ancora Semiramide, l'aria di sortita di Arsace ’Eccomi alfine in Babilonia’
‘Cruda sorte’ da 'L'Italiana in Algeri'; di Rossini accompagnata al piano da Leone Magiera a Taranto nel 1995 al Teatro Orfeo.
Un'altra pagina rossiniana, che ci permette di vedere la capacità scenica della signora Terrani, che da donna piena di fascino e ricercata femminilità si trasforma in un credibile eroe guerriero.
Siamo a Pesaro, nel 1985 . L’opera, diretta da Claudio Scimone è ‘Maometto II’, co la regia di Pier Luigi Pizzi . in scena : Cecilia Gasdia, Chris Merritt, Lucia Valentini Terrani .
Marlene Dietrich
Marlene Dietrich, nata nell’attuale periferia di Berlino nel 1901 e morta a Parigi nel 1992, è stata , più che un'attrice e cantante , una vera icona.
Personaggio dal carisma straordinario e dalla personalità fortissima, fu una delle più grandi dive del Novecento, in contrapposizione a Greta Garbo, a lei contemporanea.
Figlia di un ufficiale prussiano, a quattro anni cominciò a studiare francese, inglese, violino, pianoforte, ma a causa di un incidente dovette lasciare la musica strumentale e scelse di studiare canto, diplomandosi all’Accademia di Berlino.
A 22 debuttò in teatro e lavorò con il regista Max Reinhardt, ottenendo piccole parti in alcuni film muti , fino al primo ruolo da protagonista, nel 1929.
Quello stesso anno firmò il contratto per il primo film sonoro tedesco: L'angelo azzurro, con la regia di Josef von Sternberg, tratto da un romanzo di Heinrich Mann, fratello del più famoso Thomas.
Con questo film la Dietrich, che girò una versione del film in tedesco ed una in inglese e disegnò anche i costumi, raggiunse un successo planetario, grazie ad una interpretazione dalla marcata sensualità ed ad una canzone entrata nella storia come Lola Lola.
Determinata ad assumere un aspetto più drammatico, dopo questa pellicola si fece togliere quattro molari e si sottopose ad una dieta drastica. In questo modo rese il volto ancora più riconoscibile e scolpì la figura rendendola ancora sottile e fondamentalmente androgina.
Il film non era ancora stato distribuito, che la Paramount offrì all’attrice un contratto di sei anni in America.
La Dietrich accettò, ma ottenne di poter scegliere i registi dei suoi film, imponendo di fatto Stemberg ed affidando al fotografo Rudolph Matè la cura della sua immagine di donna fatale, trasgressiva, dominatrice, altera e fiera, aperta al duplice rapporto con entrambi i sessi, trattato in maniera molto più esplicita di quanto osasse fare la Garbo .
Il primo film statunitense fu , nel 1930, Marocco, che le valse la candidatura all'Oscar come migliore attrice e nella quale cantò due canzoni, una delle quali vestita da uomo. Nella stessa pellicola, la sequenza in cui baciava una donna, una delle prime scene con un bacio omosessuale nella storia del cinema. Seguirono altri film di grande successo, come Shanghai Express (1932) , L'imperatrice Caterina (1934) e Capriccio spagnolo (1935), che fu l'ultimo film nel quale collaborò con Sternberg.
Dopo sette anni di permanenza negli USA ottenne la cittadinanza americana.
Era una delle persone più ricche d’America, ma convinta oppositrice alla guerra non esitò a raggiungere il fronte durante la Seconda Guerra Mondiale per sostenere le truppe con spettacoli musicali.
Dalla metà degli anni Cinquanta, in concomitanza dei primi segni del declino cinematografico, iniziò a portare in giro per il mondo show teatrali nei quali cantava le canzoni dei suoi film e recitava brevi monologhi.
Prima del lungo periodo del tramonto, diede ancora grandi prove in Testimone d'accusa di Billy Wilder, L'infernale Quinlan di Orson Welles, Vincitori e vinti, di Stanley Kramer .
I primi problemi di salute dell'artista si manifestarono nel 1972, in occasione di uno spettacolo al Queen's Theatre di Londra, durante il quale cadde dopo un'uscita di scena.
Dopo una successiva caduta ad Ottawa, in Canada, ed una a Sydney, in Australia, nel 1975, l’attrice decise di ritirarsi dalle scene
Nel 1978 fu convinta a ritornare sugli schermi interpretando la parte della baronessa nel film Gigolò, accanto a David Bowie, ma il suo fu un cameo malinconico.
Nel 1984, l'attore Maximilian Schell le dedicò un film-documentario: Marlene. L’attrice, ormai in sedia a rotelle, accettò di concedere una lunga intervista audio .
Marlene Dietrich morì dopo circa otto anni trascorsi a letto, con periodi di forte depressione, il 6 maggio 1992.
Non è chiaro se fu causa naturale o suicidio.
Il suo corpo venne sepolto nel cimitero di Berlino, quasi a rappacificarsi con una nazione che aveva ripudiato nel tempo del nazismo.
Il rapporto con la Germania fu il dramma della sua vita. Profondamente legata alla sua identità tedesca, non perdonava alla Germania il regime nazista . Corteggiata con ostinazione da Hitler , si oppose sempre ad ogni collaborazione con il nazismo e durante la Guerra si schierò così apertamente contro il nazismo, anche con spettacoli a sostegno delle truppe, da ottenere, prima donna della storia, la Medal of Freedom, massima onorificenza americana.
Ancora oggi il dibattito sulla sua figura è controverso: per alcuni tedeschi è l’immagine della traditrice della patria, per altri una vera eroina.
Il fatto che la sua tomba sia stata oggetto di attacchi e danneggiamenti da parte di gruppi neonazisti fa propendere per la seconda ipotesi.
Sicuramente una donna coraggiosa, diretta, autentica ed anticonvenzionale, che seppe affrontare la vita con sfrontata onestà, pagando le scelte in prima persona.
I personaggi che ha costruito sono diventati veri miti, cui spesso il mondo del teatro ha pescato, anche a sproposito.
Nel suo caso essere reale ed unica l’ha resa una leggenda.
Documenti
Propongo anche due ascolti relativi all’altra divina citata. La Dietrich. Perché ci sarebbe molto da imparare per quelli che credono che esista un solo modo di eseguire un brano noto.
Ecco la sua versione di ‘La vie en rose’. Erano gli anni in cui la versione della Piaf era una vera icona.
Il risultato è, a mio parere, interessantissimo. Una sorta di revisione che costruisce, senza distruggere, una lezione di stile per molti registi
Una Dietrich all’ultimo spettacolo, ultrasettantenne, con problemi di alcool, diverse rovinose cadute nei precedenti spettacoli, qualche contestazione dia parte di nostalgici nazisti, si presenta per l’ultima vota sul palcoscenico, fasciata da un abito sexy che porta con grande credibilità e presenta una canzone come ‘Lola’, iconica ed ironica.
Potrebbe essere in disastro, invece il controllo del corpo, i movimenti sicuri, una vocalità amministrata con tecnica ed intelligenza, consegnano una pagina credibile, piacevolemente autocelebrativa, disincantata. Questa è una femme fatale. Già... ma cosa è una famme fatale?
FEMMES FATALES
Strana categoria quella delle femmes fatales, creature senza tempo, che portano in scena una ancestrale femminilità, con la quale riescono a sedurre il pubblico. Oppure cercano di farlo.
Con risultati interessanti, nel bene e nel male.
Sgomberiamo subito il campo da una serie di questioni. Una vera femme fatale non può essere giovane, non deve necessariamente essere molto bella, non ha bisogno di una forma fisica smagliante.
Deve essere un esempio di femminilità, resa con linguaggio androgino.
Il più limpido esempio di femme fatale del Novecento è sicuramente Marlene Dietrich, misteriosa divinità pagana, che supera le divisioni dei generi sessuali per assurgere al ruolo di icona metafisica, sensualmente asessuata, prorompentemente erotica, ma anche provocatoriamente trattenuta ed esplicitamente allusiva con il linguaggio non verbale.
Ha una strana magia con la quale irretisce i pubblico, figlia , immagino, più dell’autostima e della determinatezza che di reali talenti acquisiti con studio ed impegno.
Nel mondo della prosa ricordo Anna Proclemer, che vidi a teatro nel 1979.
La signora, che avrebbe poco dopo portato in scena la figura mascolina e controversa di George Sand, aveva 55 anni ed era la protagonista di una pretenziosa versione da ‘La Lupa’, di Verga, nella quale erano stati inseriti alcuni versi di ‘Fedra’ di D’Annunzio.
Insomma un testo facile facile: per lei, donna matura, che doveva interpretare una ragazza dai modi ferini, disinibita e corteggiata; per noi che avremmo , con questo mix verga-d’annunziano, percorso una sorta di bignami della letteratura italiana.
C’erano tante persone su quel palcoscenico, anche di forte carisma, come Rosa Balistreri, ma quando lei entrava, con quei due occhi truccati in maniera pesante, con una scollatura che riusciva a non mostrare nulla pur scendendo quasi fino alla pancia, con una chioma nera come il volo di corvi,con una voce che accarezzava tonalità gutturali da basso profondo, non vedevi altri.
Addirittura ti dava fastidio che gli altri ci fossero: fastidiosi ostacoli ad una celebrazione quasi sacra.
Anche perché della storia in realtà ti interessava poco, ed anche la trovata del parallelismo fra le due donne, era più d’effetto che di sostanza.
Oltretutto lo spettacolo era molto faticoso da recitare e la signora a fine serata era molto provata ed era evidente a tutto il pubblico.
Insomma, se non fosse stata lei, avresti detto che avevi visto una signora di mezza età, vestita da poco di buono che raccontava con voce da trans una storia di pregiudizi sentita tante volte.
Invece avevi avuto un appuntamento con una intensa creatura, che ti aveva puntato gli occhi addosso tutta la sera, che ti aveva convinto delle sue ragioni, stregato con il suono della vita che animava i suoi racconti, alla quale avresti regalato volentieri delle rose in segno di omaggio.
Una femme fatale.
Che seppe anche giocarsi le carte al meglio. Soprattutto perché aveva ben chiaro queli fossero quelle carte.
Non sempre accade.
Ricordo la bellissima Caterina Boratto ne ‘I Sei Personaggi in cerca d’Autore’, nel 1997.
Sostanzialmente Giuseppe Patroni Griffi l’aveva scelta, un mito del cinema italiano del dopoguerra, per una apparizione cameo.
Doveva dare una aurea magica allo spettacolo, che rimandasse a Pasolini e Fellini.
Insomma una sorta di citazione dottissima e suadente, un’icona della femminilità ideale, figura e simbolo, quasi metafisica, eterea ma assolutamente concreta.
Una femme fatale deve essere reale, coraggiosamente e spudoratamente.
Luccicante di lamè, insensibile al tempo che sembrava non averla sfiorata, elegante nei movimenti, suadente nel sorriso, entrò e gli sguardi di tutti erano su di lei.
Per un momento il teatro trattenne il fiato. Gli orologi sembrano fermarsi, in attesa che l’Attrice parlasse, scendesse dall’empireo al nostro mondo caduco.
Finalmente la Boratto disse la sua battuta.
Forse sarebbe più giusto dire che avrebbe dovuto recitare la sua parte, perché in realtà pigolò qualcosa di inudibile. Un suono non appoggiato, che non si sentiva, scialbo ed inconsistente.
In un momento tutto l’edificio filosofico evaporò.
Avevamo davanti a noi una bella signora, che portava strepitosamente gli anni e che aveva recitato in tanti film. Nessuna vamp, niente diva, nessuna apparzione.
Una femme fatale deve avere determinazione, grinta, carattere, perfino violenza.
Nel mondo dell’opera, per me queste sono doti appartenute in abbondanza a Lucia Valentini Terrani.
La più fatale delle donne che ho visto in scena.
L’aspetto non era apparentemente accattivante: una figura solida, la mascella prominente, lo sguardo leggermente strabico.
Neanche i ruoli giocavano a suo vantaggio, perché spesso cantava parti maschili.
Nonostante tutto questo, quando appariva in scena riusciva a calamitare l’attenzione su di sé in maniera ineguagliabile.
Fosse Malcolm od Arsace, riusciva ad essere credibile come virile eroe, ma lasciava sfuggire uno sguardo intrigante, una movenza da diva.
Qua e là, senza annebbiare l’interpretazione, solo per ricordare che sotto quel mantello c’era una donna misteriosa, forte, decisa, imprevedibile.
Non voleva farti credere di essere un uomo, ma solo ricordarti che era così abile e così brava da potersi travestire, essere credibile, senza rinunciare per un attimo ad essere anche se stessa.
Quando cercava note profondissime per Angelina, celebrava la mascolinità della donna vincente, a dispetto di quello che gli altri si aspettavano.
Cenerentola è una donna trionfante perché trova dentro di sé una determinazione virile, guerresca, che le fa superare categorie e stereotipi.
Nessun’altra che ho ascoltato in ‘ La Cenerentola’ riuscì in questa impresa: tutte brave ragazze, sfortunate e generose, cantanti sicure e rispettose della partitura, forse anche più di lei. Ma la magia è altro.
Poco importa se forzasse le note per trovare spelonche di suono.
Il risultato era stupefancente, imprevedibile, un po’ come la coda di leopardo che si narra Sara Bernardth si fosse fatta trapiantare sul fondo della schiena.
Leggenda per chi è già una leggenda. Non fa nulla che sia falso. Importa che suggestioni.
Una vera femme fatale non fa neanche immaginare i futuri movimenti: deve essere sempre lei la padrona della situazione.
Ti aspetti per ‘Dido ed Aeneas’ una donna straziata che cerca nei suoni del suo strumento i colori per la disperazione. Non pensarci neppure.
Didone nella sua versione si fa donna sensuale , vestita di voce e di seta, che sublima l’abbandono come il monumento alla necessità della solitudine per una regina.
Il suicidio non sarà l’abbandono della vita, ma piuttosto il modo di mostrare al mondo quando si sia perso chi l’ha lasciata.
A lei rimane l’immortalità, a lui la miseria quotidiana.
Terrani era femme fatale anche perché amava la sfida. A differenza di altre cantanti osannate da pubblico e critica, non fece mai l’errore di pretendere di avere al suo fianco cantanti di levatura media o di scegliere repertori scontati
La ascoltati con Dara, con Lella Cuberli, con Roni e fu un continuo fuoco d’artificio. Non una sfida, ma un crescendo di note, di abbellimenti, di intese e di divertimento. Perché anche l’ironia diviene arma di seduzione.
In concerto, nessun brano scontato, ma proposte sofisticate, per tenere sempre alta l’aspettativa.
Avere la platea in pugno, dominarla con uno sguardo, accarezzarla con un sorriso, stordirla con la sapienza della voce. Doti rare. Per fortuna. Perché le femme fatale devono essere pochissime.
Perché gettano le sicurezze alle ortiche, ti scombussolano.
Non si possono inquadrare e neanche imitare, come dimostrano certi tentativi di alcune aspiranti primedonne, che provano a scimmiottare gli irraggiungibili modelli, dimostrando la loro inconsistenza, ottenendo una manciata di commenti patetici, qualche critica pietosa e ricordandoci che la prima delle doti di una vera femme fatale deve essere la più rara: l’intelligenza.
di G.M.