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Nabucco al Verdi di Trieste - Recensione di Gianluca Macovez

2024-03-29 03:08

Gianluca Macovez

Musicologia generale, Curiosità, Recensioni, opera, recensione,

Nabucco al Verdi di Trieste - Recensione di Gianluca Macovez

La recensione del Nabucco in scena al Teatro Verdi di Trieste. A cura di Gianluca Macovez

 

 

 

 

 

 

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Una riflessione sul Nabucco triestino.



 

Il teatro Verdi di Trieste sta presentando una Stagione Lirica e di Balletto decisamente non scontata.

Dopo una ‘Manon Lescaut’ musicalmente molto interessante e visivamente sconclusionata; un ‘Flauto Magico’ colorato e suggestivo; ’Anna Bolena’ nello storico allestimento di Vick e con alcune fra le voci più interessanti dell’ultima generazione; ‘Ariadne auf Naxos’ vocalmente luminosissima e splendidamente diretta dal nuovo direttore stabile, il Maestro Calesso, adesso è la volta di ‘Nabucco’.per il quale è stato allineato un cast di grande richiamo: la regia di Giancarlo Del Monaco, le scene ed i costumi di William Orlandi, la direzione di Daniel Oren, le voci di Burdenko, della Siri, di Ventre.

Un successo annunciato, sold out da settimane, che raggiunge, secondo chi scrive, l’obiettivo solo parzialmente.

O meglio, che lascia lo spazio a grandi considerazioni.

La prima è un plauso al teatro. Che ha scelto la via coraggiosa del nuovo, proponendo allestimenti spesso non convenzionali ad un pubblico certo non incline alle avanguardie.

Una mossa forte, più di quanto possa apparire all’esterno, che rende onore alla Sovrintendenza che ha imboccato una via di marcato rinnovamento, accettando il rischio di scontrarsi con lo zoccolo duro dei tradizionalisti in nome della vitalità e dell’apertura al nuovo, unica condizione per la sopravvivenza dei teatri.

La seconda è ancora molto positiva: una politica di proposta degli allestimenti che si giudicano più interessanti, provenienti da teatri nazionali ed esteri. Una maniera per contenere i costi e per mantenere vivace il dibattito ed educare la platea alle novità internazionali.

Ma qui si apre la terza riflessione, meno positiva e del tutto personale.

Anzi, verrebbe da dire che visto il trionfo finale è una impressione sbagliata. Ma non per questo non va esplicitata, nella speranza che possa fungere da stimolo ad un dibattito che renda vivace un mondo che rischia una sonnolenta autoreferenzialità.

In questo ‘Nabucco’ le personalità in campo erano fortissime, ma la sensazione è stata che più che lavorare insieme alla riuscita allestimento, vi abbiano partecipato contemporaneamente.

Ma andiamo con ordine.

Giancarlo Del Monaco propone nell’ottobre 2022 a Zagabria un ‘Nabucco’ ambientato durante i moti del 1848.

Non una proposta con velleità innovative, già sperimentata da numerosi registi, ma nel suo caso era una citazione attenta al ‘Gattopardo’ di Visconti, che aprì in modo dirompente alla rilettura del capolavoro verdiano.

Una idea né troppo tradizionalista, né troppo all’avanguardia, frutto di un gioco sapiente di citazioni e riferimenti, con tanti piani di lettura, che evidentemente piace alla direzione del teatro triestino, che sceglie di proporla al Verdi.

Una scelta consapevole, oltretutto per una città, all’epoca saldamente austriaca, che quei rivolgimenti non li ha vissuti.

Non c’è dubbio che nel momento in cui la direzione artistica ha ritenuto l’allestimento adatto al suo pubblico, se ne è assunta la responsabilità ed è chiamata a difenderne l’identità.

Peraltro non stiamo parlando di artisti poco conosciuti.

Giancarlo Del Monaco sta per festeggiare i sessanta anni di carriera.

Ha raccolto successi in tutto il mondo, con gli oltre cento spettacoli di cui ha curato la regia, in Germania, al Metropolitan di New York, in Francia, in Spagna, in Argentina, solo per fare qualche esempio .

Fondatore, con il padre, del prezioso Festival di Montepulciano, conosce il teatro in tutte le sue sfaccettature, essendo stato anche Sovrintendente dello Staatstheater di Kasse, del Macerata Festival, a Bonn ed all'Opera di Nizza.

Insomma una pietra miliare dello spettacolo d’opera del secondo Novecento.

William Orlandi è stato una colonna degli allestimenti del Verdi prima di diventare una figura di rilevanza internazionale.

Ritrovarli sul palcoscenico del Verdi era un autentico evento per gli amanti dell’opera.

Di fatto, però, assistendo a più repliche, abbiamo visto spettacoli differenti e con cambi non da poco.

Per non essere troppo pedanti pensiamo solo al finale.

Abigaille ha perso. 

Il grande muro sul fondo si divide a metà. La parte inferiore diventa una terrazza ed in alto appare un fondale con delle fiamme dipinte,verso il quale la regina decaduta appare, incerta nel passo, trasandata, con le chiome sciolte.

È sola. Dopo una vita di malefatte, di imbrogli, di tradimenti, di pugnalate alle spalle, nella quale pensava che il potere fosse il bene assoluto cui aspirare, raccoglie la giusta mercede: il dramma della solitudine, che forse l’accompagna da sempre e che prende la forma delle vampate, una sorta di inferno in terra, che preannunciano la condanna eterna.

Lo spettacolo assume un senso preciso, eticamente forte, anche perché fino a quel momento l’usurpatrice appariva di monolitica crudeltà, un po’ Lady Macbeth ed un po’ Imelda Marcos, troppo sicura di se, delle sue trame. Una manager del male. Questa conclusione, così moraleggiante, potremmo dire cristiana, riporta la dimensione ai valori biblici della vicenda originale ed abbatte la possenza dei grandi muri che dominano l’allestimento e propone interessanti parallelismi narrativi con Mozart, che si aggiungono ai più facili riferimenti pittorici a Van Gogh.

Alla prima recita cui ho assistito Olga Maslova interpreta il finale in questa maniera. Probabilmente il suono paga un po’ la distanza dalla sala, ma l’effetto è decisamente intenso.

Il giorno dopo in scena c’è la Siri, che alla prima è stata sostituita nel finale dalla collega russa a causa di un malore, che però in sala non è stato annunciato .

Si alza il muro, appaiono la terrazza, il fuoco, ma non la cantante che fa capolino fra i colleghi in primo piano.

Non si capisce il senso del vuoto venutosi a creare nella parte superiore della scena e la regina decaduta muore nell’indifferenza generale.

Sembra che chieda scusa e nessuno la ascolti. Che come risposta è piuttosto lontana dalle indicazioni del Cristianesimo.

La questione non è teologica, ma piuttosto relativa alla tutela dell’opera d’arte, oggetto peraltro di specifiche sentenze, proprio per quel che riguarda l’apporto registico.

Cosa voleva rappresentare il regista? Noi pubblico, che ci aspettavamo un lavoro firmato Del Monaco, quale conclusione dobbiamo ritenere corretta? Oppure era un finale aperto, un teatro partecipato, che adesso va tanto di moda.

Ma soprattutto, se in questo caso la differenza era immediatamente identificabile, del resto della serata quanto e cosa era fedele all’allestimento originale?

Certamente non la soluzione del bis del ‘Va Pensiero’, cantato al proscenio, distruggendo l’atmosfera commovente che si era creata, nascondendo Nabucco in catene, interrompendo la narrazione e ritornando alla posizione originaria solo dopo aver ricevuto una mole ragguardevole di applausi.

Attenzione: non sto dicendo che lo spettacolo di Del Monaco fosse inappuntabile. Anzi.

Ma che ogni artista ha il diritto di essere tutelato e rispettato.

Così come il pubblico che pensa di andare a vedere un allestimento con una data regia, deve potersi fidare che quello che vede è quanto previsto.

Perché il teatro è il luogo del dialogo, del dibattito, dell’incontro. Non è la gara per dire chi è più forte.

A maggior ragione con un titolo come questo.

Riaffermata la premessa che quanto detto è parere del tutto personale e quindi opinabile e forse sbagliato, passiamo alla cronaca.

Il pubblico triestino ama da anni il maestro Oren, che anche in questa occasione il direttore riesce a far brillare l’Orchestra del teatro affiancata dalla Civica Orchestra di Fiati “G. Verdi” - Città di Trieste.

Qualcosa di insolito, però, c’è: tutto il primo atto raccoglie pochissimi applausi.

La Sinfonia, con la componente ritmica che sembra avere il sopravvento sulle suggestioni drammatiche, è accolta con apprezzamento ma non entusiasmo.

Gli arredi festivi’ passa sotto silenzio, nonostante la buona prova del coro, diretto da Paolo Longo . Nessun battimani per l’aria di Zaccaria e neppure per il bel terzetto. 

Niente va male, ma neppure nulla trascina l’entusiasmo che si poteva prevedere.

Le cose cambiano dal secondo atto. Oren sembra prendere in mano la scena: canta, gesticola, salta, sembra bramire e la platea, come sempre, apprezza questo suo modo di vivere la partitura.

Un faretto puntato sulle mani, che diventano uno dei protagonisti dello spettacolo, mostra i movimenti magnetici del direttore.

Talento ed eccesso si rincorrono. Con grandi pagine musicali come ‘Son pur queste mie membra - Dio di Giuda - "Cadran, cadranno i perfidi ‘, che commuove per intensità, tempi, ariosità.

Ma anche gesti da rock star, come quando , alla fine di ‘Va Pensiero’, il Maestro, evidentemente non contento degli applausi ricevuti, si gira ripetutamente, avvicina la mano all’orecchio e di fatto chiede al pubblico un consenso che motivi il bis.

E’ successo alla prima ed alle due repliche cui ho assistito.

Che dimostra come ci fosse la volontà di eseguire il bis a tutti i costi, mutando la posizione delle masse, ma anche come in realtà il successo della prima esecuzione non fosse così spontaneamente clamoroso come si voleva far credere.

D’altra parte con un organico ridotto come quello attuale del coro, va riconosciuto che la prova è stata decisamente di qualità.

Alla fine del bis il maestro applaude molto lungamente, seguito dalla sala, che smette solo quando le mani di Oren si acquietano. 

Sicuramente è l’entusiasmo per la prova portata a termine con valore, ma la sensazione sgradevole di un consenso guidato attraversa molti in sala.

Sfumature, si dirà. D’altra parte sono quelle che definiscono il capolavoro, che a me pare non si sia ascoltato.

La voci erano quasi tutte straniere, elemento su cui ogni teatro dovrebbe riflettere, ad eccezione della Fenena della seconda compagnia e di alcuni comprimari: Cristian Saitta, credibile scenicamente e vocalmente come gran sacerdote di Belo; Christian Collia, corretto e piacevole Abdallo ; Elisabetta Zizzo, Anna di grande spessore vocale.

Per Fenena era prevista Anna Goryachova, che ricordavamo ottima Adalgisa, ma che per il secondo anno viene annunciata nella stagione e poi viene sostituita. 

Al suo posto si sono sentite Elmina Hasan e Francesca Di Sauro . Entrambe dotate di una interessante vocalità, sicure negli acuti, con buona presenza scenica. Particolarmente brillante la Di Sauro, che ha saputo offrire al suo personaggio una interpretazione di grande rilevanza ed un colore realmente opulento di sfumature.

Abigaille è ruolo di proibitiva difficoltà vocalmente: un soprano drammatico con notevoli agilità; solidi do sovracuti da cantare sia a piena voce che pianissimo; note gravi profonde; trilli di forza; acrobatici salti d’ottava. Ma la parte richiede anche una grande interprete, perché il rischio di concentrarsi più sul canto che sul personaggio è in agguato e questo è certamente quanto di più antiverdiano possa accadere.

Nel ruolo si alternavano Maria Josè Siri ed Olga Maslova.

Entrambe risultano vocalmente adeguate, pur con una dizione che sarebbe bene fosse migliorata.

Profondamente differenti le due interpretazioni.

La prima, soprano famosa in tutto il mondo, canta con determinazione. I suoni sono pieni, alle volte un po’ asprigni, ma forse è una scelta interpretativa. La voce potente, anche se il volume non è impressionante.

La sua Abigaille è, scenicamente, monolitica. Una donna cattiva, severa, sempre torva e brusca anche nei movimenti. A maggior ragione la scelta del finale fra gli altri appare incondivisibile.

La Maslova, forte di fiati lunghi, estensione ampia, suoni omogenei ed una gamma di colori vasta, che si fa ancora più interessante nei suoni più alti, appare una donna determinata, ma credibile anche nei momenti di cedimento.

In ‘Anch’io dischiusi un giorno’ passa dalle lamine d’acciaio della prima parte ai toni accorati della seconda, tratteggiando una figura volitiva, che lotta per sedare la sua componente umana, per imbavagliare angosce e paure, che interpreta con raffinatezza e misura.

Carlo Ventre è tenore dalla vocalità piena, i solidi acuti e che canta con baldanza anche eccessiva la parte, tanto che il suo Ismaele risulta prevaricante nelle scene d’insieme e tonante nei pezzi solistici. 

Marko Mimica era Zaccaria, ruolo per il quale mi pare debba ancora maturare la giusta autorevolezza.

Certamente non è stato aiutato dalla scelta di far calare il sipario prima e dopo l’aria ‘Vieni o levita’ che così appare come una specie di inciso di pochi minuti fra due cambi di scena, invece che uno dei momenti di massima suggestione narrativa.

Per quel che concerne il protagonista, si alternavano Roman Burdenko e Youngjun Park, che brillano per dizione e capacità di lavoro sul significato del testo.

Park ha una voce educata, di volume non strabordante, che gli consente di risultare più credibile e commovente nella seconda parte, quella dolente, piuttosto che in quella iniziale, spavalda e tracotante. Nel duetto "O di qual onta gravasi’, accanto alla Maslova, trova colori e passaggi suggestivi. 

Burdenko è un magnifico Nabucco: sicuro nelle agilità, con fiati possenti, acuti solidi, un volume potente che sa governare con gusto ma soprattutto di una amplissima gamma di colori, consegna alla platea una grande prova, con un Nabucco credibile, sia nell’arroganza dell’invasore, che nel dolore del padre preoccupato.

Il suo ‘Dio di Giuda’, commuove per il lavoro sulla parola, la capacità interpretativa unita ad una tecnica precisa ed ad una opulenza vocale che gli permette di cesellare una tavolozza di sfumature ricchissima. Certamente il momento più alto della serata che, come detto, si è conclusa con un generale ed indistinto trionfo. Annunciato, cercato, a tratti provocato.

A nessuna delle recite si è presentato al proscenio il Maestro Del Monaco, ad avvalorare le considerazioni iniziali.



 

Trieste, teatro Verdi, 23 e 24 marzo 2024



 

NABUCCO di Giuseppe Verdi

Dramma lirico in quattro parti di Temistocle Solera

Maestro Concertatore e Direttore DANIEL OREN

Regia GIANCARLO DEL MONACO

Scene e costumi WILLIAM ORLANDI

Light designer WOLFGANG VON ZOUBEK

Assistente alla regia MARTINA ZDILAR SERTIĆ

Assistente alle scene e costumi FRANCESCO BONATI

Maestro del Coro PAOLO LONGO

Personaggi e interpreti

Nabucco ROMAN BURDENKO (22, 24, 27, 30/III)/YOUNGJUN PARK (23, 29/III)

Abigaille MARIA JOSE’ SIRI (22, 24, 27, 30/III)/ OLGA MASLOVA(23, 29/III)

Zaccaria RAFAL SIWEK (22, 29/III) /MARKO MIMICA (23, 24, 27,30/III) 

Fenena ELMINA HASAN (22, 24, 27, 30/III)/ FRANCESCA DI SAURO (23, 29/III)

Il gran sacerdote di Belo CRISTIAN SAITTA

Abdallo CHRISTIAN COLLIA

Anna ELISABETTA ZIZZO



 

Con la partecipazione della Civica Orchestra di Fiati “G. Verdi” - Città di Trieste

Orchestra, Coro e Tecnici della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste

Allestimento del HRVATSKO NARODNO KAZALIŠTE DI ZAGABRIA



 

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