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Otello a Trieste: una lunga storia d'amore - di Gianluca Macovez

2022-10-27 17:22

Gianluca Macovez

Musicologia generale, Storia della Lirica, Curiosità, musicologia, opera,

Otello a Trieste: una lunga storia d'amore - di Gianluca Macovez

Un articolo di Gianluca Macovez dedicato ai precedenti dell'Otello verdiano al Teatro Verdi di Trieste

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il teatro Verdi di Trieste si accinge ad inaugurare la Stagione di Opera e Balletto con un titolo del grande repertorio, uno di quegli spettacoli che sicuramente rimangono nella memoria degli spettatori, nel bene e nel male: ‘Otello’ .

Diciamo subito che le vicende del ‘Moro di Venezia’ tennero banco nel Teatro Grande, all’inizio soprattutto nella versione rossiniana.

In particolare nel periodo in cui il Gran teatro La Fenice decise la chiusura in segno di protesta contro la dominazione austriaca, lavorarono a Trieste i Bertoja, scenografi principali del massimo teatro veneziano, autori di centinaia di spettacoli acclamatissimi e per lungo tempo collaboratori preziosi di Giuseppe Verdi e poi di Giacomo Puccini.

Essendo di fatto imprenditori teatrali, era loro abitudine acquistare dal teatro le scene dismesse dei loro spettacoli, per poterle utilizzare per spettacoli successivi o per allestirli in spazi secondari che non avevano laboratori propri. Questa attività gli permise di offrire a basso costo al palcoscenico triestino degli spettacoli sontuosi, ottenuti adattando le scene degli spettacoli veneziani più popolari. Fra gli spettacoli di maggior successo proprio una edizione di ‘Otello, l’Africano di Venezia’ di Rossini, allestito nel 1864 e replicato a furor di popolo nella stagione successiva.

Quando nel 1887 andò in scena la prima assoluta della versione verdiana, Trieste era pronta a mostrare il suo entusiasmo per quel titolo, allestito già nel 1889 e ripreso nel 1890, nel 1891 e nel 1893, per un totale di quaranta repliche in quattro anni.

Ma non solo. Fra dicembre 1900 ed il gennaio dell’anno successivo, ‘Otello’ andò in scena per venti volte.

Nella prima metà del Novecento il titolo continuò ad essere un titolo di grande richiamo: nel 1912; nel 1927; nel 1938 con Francesco Merli, che ritornerà a vestire il ruolo del protagonista nella stagione 1945-46 affiancato da Renata Tebaldi; nel 1941 con Aureliano Pertile, talmente apprezzato da essere titolare del ruolo anche nella ripresa del 1944; nel 1957; nel 1962; nel 1967, con l’accoppiata sontuosa Pier Miranda Ferraro e Luisa Maragliano.

Sicuramente i melomani più fedeli ricordano una edizione leggendaria di questo titolo: era l’inaugurazione della stagione 1975- 76 ed il teatro schierò il meglio che si poteva avere all’epoca.

Scene raffinate, essenziali, che rendevano ancora più forte l’impatto narrativo, con dei velari mossi dal vento che parevano descrivere la vita del Moro, in procinto di essere strappata dalla reiterate bugie di Cassio, firmate da un giovane Pierluigi Pizzi, autore anche di costumi di sontuosa eleganza.

La regia, attenta al gesto, ad ogni espressione, ma anche cesellata attorno alle grosse personalità degli interpreti, era di Alberto Fassini.

Direzione sapiente di un grandissimo Nino Sanzogno, uno di quei direttori della grande scuola italiana, capace di cogliere ogni accenno della partitura, di entusiasmare senza cadere nella trappola degli effetti strabordanti, con il quale non correvi il rischio di ascoltare un ‘Verdi verista’ o di venire tramortito da volumi orchestrali che coprissero le voci.

Con queste premesse, i tre protagonisti poterono dare il loro meglio: Carlo Cossutta, Piero Cappuccilli e Raina Kabaiwanska.

Cossutta è stato un tenore di rara bravura, che ha saputo indossare il ruolo di Otello in maniera ineccepibile, in un tempo in cui pareva che quel personaggio potesse essere pertinenza esclusiva di Mario Del Monaco.

Dotato di una voce di grande bellezza, di una estensione ampia e sicura, di acuti stentorei, sapeva trovare mezzevoci commoventi, colori struggenti e delicati, che cozzavano con le tinte forti ed i toni sprezzanti messi in campo, senza mai eccedere, nello scontro con Desdemona.

Vinceva di fatto il confronto con Del Monaco perché ciascuno dei due portava in scena un aspetto differente del Condottiero veneziano ed ognuno di loro aveva ragione: alla fine lo spettatore non confrontava, ma usciva arricchito da una lettura parallela, credibile, che tratteggiava un uomo complesso, una vittima della rivalità e delle invidie.

Naturalmente per il tenore triestino fu una autentica apoteosi, con un diluvio di applausi, che quasi sembravano intimidirlo.

Piero Cappuccilli era l’altro idolo di casa.

Il suo Jago fu una lezione di teatro. Vocalmente potentissimo, ma soprattutto intenso per la tavolozza cromatica dispiegata, per gli accenti, le sfumature. Dal punto di vista dell’interpretazione scenica, un delitto che la Rai all’epoca non abbia pensato ad una ripresa. Il baritono, uomo elegante e di bell’aspetto, fasciato da un abito nero da militare, che metteva in evidenza le forme asciutte ed aitanti, al momento dell’aria ‘Credo in un Dio Crudel’ si trasformava, sembrava diventare storto, gobbo, deforme. Pareva che nel tempo della confessione il ‘Dio crudel’ lo possedesse, fosse entrato dentro di lui, per poi uscirne all’ultima nota, in tempo per fornirgli quella maschera ipocrita che gli consentirà che raggiungere i risultati assassini cui puntava.

Anche in questo caso applausi, grida di approvazione. Alla recita cui assistetti, addirittura un vecchio appassionato che dal loggione dedicò dei versi ad Cappuccilli, ottenendo la sua dote di applausi.

Il rischio che Desdemona fosse schiacciata da tanta bravura non sfiorò quello spettacolo, perché il Verdi affidò la parte ad un soprano amatissimo a Trieste, una di quelle artiste dalla personalità fortissima, capace di ritagliare i propri spazi in qualunque occasione: Raina Kabaiwanska, che con intelligenza e lungimiranza raccontò una donna purissima, fedele, credibile, ma anche determinata, coraggiosa. All’aggressività di Iago, all’opulenza di Otello, rispondeva con una figura metafisica, che sembrava determinata a seguire una via di purezza e limpidità. Le leggendarie note filate del soprano bulgaro suonarono come struggenti richieste non di essere risparmiata, ma di essere creduta. Desdemona metafora delle vittime delle violenze domestiche, di quelle quotidiane, non tanto e non solo fisiche ma principalmente psicologiche.

Il pubblico si commosse realmente nel sentirla perdonare il suo carnefice e sancì definitivamente l’adozione morale per quella regina del palcoscenico che due anni dopo verrà definitivamente incoronata con una edizione indimenticabile di ‘Adriana Lecouvreur’.

Lo spettacolo verrà ripreso a furor di popolo nel 1980.

Ancora grande successo, anche se della terna originale era rimasto solo Carlo Cossutta, che incurante del tempo propose un Otello ancora più magnetico. Al suo fianco un valido Kari Nurmela, che ovviamente partiva con l’handicap di un fresco confronto con una leggenda per Trieste e la raffinata Maria Francesca Cavazza.

La direzione passò ad una bacchetta di grande prestigio come Bruno Bartoletti ed al di là di fazioni e passioni, lo spettacolo mantenne tutto il suo fascino.

Dopo un simile allestimento , due allestimenti.

Un tentativo di realizzare un nuovo evento, nel 2001, schierando quello che si proponeva come l’Otello del nuovo millennio: Josè Cura, che da bravo divo cantò solo alcune delle repliche previste, complessivamente quattro, alternandosi con Vladimir Galouzine. Accanto a lui la popolare Cecilia Gasdia ed il bravo Juan Pons.

Vuoi la scelta di proporre lo spettacolo in agosto, vuoi le forti personalità coinvolte, dirette da Gary Bertini, alla fine fu più quello che si disse prima dello spettacolo che quello che rimase dopo.

Infine l’allestimento del 2009 2010.

Uno spettacolo registicamente riuscito, ma Giulio Ciabatti conosce bene sia il teatro in generale che il pubblico triestino in particolare e difficilmente avrebbe fallito le aspettative e bello dal punto di vista delle scene, firmate da Pier Paolo Bisleri, artista che non ha avuto, a mio parere, i riconoscimenti che il suo talento meritava.

Detto questo, che è molto dal punto di vista dell’idea dello spettacolo, ma molto poco per accontentare le aspettative di chi paga un biglietto, poco altro di positivo.

A Cominciare dalla direzione di Nello Santi. Un direttore di grandissima esperienza, che nonostante l’età procedeva a memoria, ma che alla fine offriva una prova disomogenea, con una inspiegabile concitazione, dei volumi esagerati dell’orchestra, che copriva le voci ed una narrazione complessiva brutale, che non trovava riscontro nella raffinata partitura verdiana.

Alla prima Otello era Fraccaro, che scrissero che non centrò appieno il personaggio, mentre a me toccò un coraggioso Giuseppe Jung, che offrì sicuramente la peggiore versione del Moro che abbia mai sentito .

Sicuramente il tenore coreano, di cui poi ho perso senza rimpianti le tracce va comunque assolto. La grande domanda è cosa facessero i vari responsabili del teatro mentre si svolgevano le prove. Ma anche come Santi abbia potuto non protestarlo. Di fatto, poi, se ricordo bene fu un rincorrersi di sostituti, a confermare che Otello quelle sere non aveva superato la tempesta ed era affondato prima di arrivare in porto.

Jago vedeva alternarsi un grande Juan Pons a Paolo Rumetz, ma le buone capacità dei due baritoni non bastarono a salvare la serata, anche perché all’epoca vennero sollevate tante osservazioni perfino alla Desdemona di Adriana Marfisi, che si alternava a Mjriam Tola.

Evidente che il problema era la direzione, che era successo qualcosa che aveva rotto l’incantesimo necessario perché nascano serate di magia, invece che di rumore.

Insisto perché è inconcepibile che il Maestro Santi, che era noto per la capacità di sostenere i cantanti, non abbia saputo sostenere il soprano titolare della parte, perché non ci sono dubbi che di quell’artista, che peraltro avevo apprezzato in ruoli ben più impegnativi, conosceva ogni sfumatura, essendo sua figlia.

Quindi questo è stato un ‘Otello’ a suo modo indimenticabile, ma dal quale sentiamo tutti la voglia di affrancarci.

Il Verdi ha dimostrato un coraggio ammirevole ad inaugurare la stagione della ripartenza con un titolo così impegnativo.

Cosa potremmo aspettarci? Gli amanti della tradizione avranno di che gioire, perché Ciabatti sicuramente confezionerà uno spettacolo elegante, senza forzature, mai banale e mai eccessivo.

Uno spettacolo da vedere e non da temere.

Il vero protagonista, non c’è dubbio, sarà il direttore Daniel Oren. Come Otello ha superato più d’una tempesta ed il fatto che sia riapprodato in Piazza Unità d’Italia, quello spazio architettonico di inaudita suggestione su cui si affaccia il Teatro Verdi e che regala a Trieste una delle più belle piazze d’Europa, è un regalo straordinario per pubblico triestino che ama incondizionatamente questo vulcanico artista, fin dai suoi esordi nel 1981 con ‘Manon Lescaut’.

Poco importa che si alterni con Francesco Ivan Ciampa. Ha lavorato strenuamente con l’orchestra, ha spiegato cosa desidera e sicuramente ha trasmesso una visione che rimarrà anche nelle tre repliche in cui sarà sostituito.

Per il ruolo del protagonista si alternano Arsen Soghomonyan e Mikheil Sheshaberidze.

Se il secondo è già noto ai triestini per aver cantato nel 2014 nella prima di ‘Das Liebesverbot’ di Wagner e come Mario Cavaradossi accanto alla Siri nella scorsa stagione, il primo è un esordio assoluto.

Le aspettative sono altissime, perché questa è la quarta produzione di ‘Otello’ che affronta quest’anno, dopo Monaco di Baviera, Bologna e Jerevan ed è stato preannunciato come una delle voci tenorili più interessanti della sua generazione.

Per il ruolo di Jago, a Trieste è stato chiamato il baritono del momento: Roman Burdenko, che quest’anno è stato fra gli interpreti di ‘La Dama di picche’ alla Scala; ha trionfato nel Trittico a Salisburgo; ha cantato a Mosca ed a San Pietroburgo; è stato Scarpia all’Opera di Parigi; Germont in Oman; protagonista di una estate che lo ha visto trionfare in Arena, salvare la serata flop di Domingo; ha da poco concluso ‘Nabucco’ da protagonista a Palermo.

Si alterna con lui una interessante voce italiana emergente: Elia Fabbian, che sta scalando la via del successo piuttosto rapidamente.

Straniere anche le due Desdemona, entrambe nomi nuovi per Trieste: Liana Haroutounian e Salome Jicia, entrambe poco popolari, ma tutte due con una carriera ingemmata di critiche positive.

La Jicia ha da poco interpretato la versione rossiniana di Desdemona e fra pochi mesi affronterà il ruolo di Norma, confermandosi una esperta belcantista ed una artista attenta anche ad un repertorio meno popolare, con lavori sconosciuti di Donizetti, titoli di Spontini e molto rossini minore.

Liana Haroutounian è misteriosamente poco nota in Italia, ma è sicuramente uno dei soprani emergenti più contesi dai grandi teatri internazionali. Solo nell’ultimo anno può vantare la partecipazione a spettacoli importantissimi a Barcellona (La Dama di Picche); è stata ‘Tosca’ a Malaga ed ad Atene; ha cantato ‘Suor Angelica’ e ‘Tabarro’ a Bruxelles; ‘Madama Butterfly’ alla Royal Opera House a Londra.

Trieste offra al suo pubblico una occasione preziosa per ascoltare una voce che promette di scrivere pagine di grande musica nei prossimi anni.

 

A questo punto non ci sono dubbi che quando la direzione del Verdi ha puntato su ’Otello’ si rendeva perfettamente conto che una scelta del genere non era una sfida ma una promessa: di impegno, passione, determinazione a dare il meglio per recuperare un ruolo di guida del teatro italiano che negli anni gli era sfuggito di mano. Una proposta coraggiosa, per gridare che la cultura e la qualità sono scelte che possono aiutare a superare i tempi nebbiosi che ci circondano.

Penso che una simile scelta sia coraggiosa e che valga la pena di raccoglierla, nella speranza di uscire ricchi di fiducia che la Notte non sia più cosi densa.

 

Galleria di protagonisti

nell'ordine: Carlo Cossutta (in copertina), Pier Miranda Ferrara, Piero Cappuccilli, Luisa Maragliano, il M° Daniel Oren

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